IN SPIRITO E VERITA'

GESU' E' SPIRITO E I VERI CRISTIANI
LO ADORANO IN SPIRITO E VERITA'
 
 
 
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La seconda chiamata

Ultimo Aggiornamento: 08/07/2011 18:29
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vale dunque la pena continuare? È il momento della crisi. E che cos'è la crisi? La crisi è l'azione di Dio che scava nel fondo del cuore dell'uomo per purificarlo e renderlo saldo. Lì emergono, nella preghiera, la purezza e la correttezza delle motivazioni che ci hanno guidato nella scelta: la nostra assiduità all'ascolto della parola di Dio radica nel nostro cuore la parola di Dio che diviene così luce per il nostro cammino anche e soprattutto quando si è nella valle della morte. Geremia non riesce a spegnere il fuoco che arde nel suo cuore: la forza della parola di Dio lo abita e lo mantiene nella fedeltà. La preghiera è custodia di una presenza che è in noi, presenza che dà senso alla nostra vita e al nostro ministero.
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Elia

Il brano dal Primo libro dei Re 19, 1-18 ci presenta un momento critico della vita e del ministero di Elia. Elia, il profeta zelante, intransigente, perfino violento nel suo zelo per il Signore, si trova improvvisamente preda della paura. Il profeta che ha appena scannato i quattrocentocinquanta profeti di Baal, ora fugge preso dalla paura perché Gezabele, la regina empia, lo cerca per ucciderlo. Elia vive una fase di crisi, un fallimento personale e ministeriale. Impaurito, Elia vive una vera e propria depressione: si paragona ai suoi padri, sentendosi ferito del fatto di non essere migliore di loro (v. 4). E si lascia andare alla volontà di morte: Elia preferirebbe morire, è preso da tentazione suicida. E il sonno in cui cade è simbolo di questa morte in cui egli sta sprofondando. Elia si trova nel deserto, luogo di morte, sia geograficamente che simbolicamente; eppure, nel deserto Elia non diserta.
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Anzi, si inoltra ancor di più nel deserto stesso. Simbolicamente, Elia va a fondo della sua crisi. Spesso i fallimenti sono gli eventi della vita attraverso i quali Dio opera una breccia nella corazza che noi rivestiamo, apre in noi una ferita che diviene lo spiraglio per la grazia, diviene il terreno fecondo su cui la parola ascoltata può germinare e fruttificare. Il più delle volte Dio agisce in noi attraverso gli eventi della vita e soprattutto attraverso i fallimenti, le crisi, gli smarrimenti, le cadute. La crisi, assunta nella preghiera, diviene lo spazio del rinnovamento della vocazione. Del resto, già la vocazione, come mostra Il Vangelo secondo Luca 5, 1-11, è una crisi che interviene nell'esistenza di una persona. Nel testo lucano il momento della maggiore vicinanza di Pietro a Gesù, il momento a partire dal quale Pietro assume la sua vocazione e il suo nuovo ministero, è anche il momento in cui egli vede il proprio peccato e prende coscienza della propria negatività. Conoscenza di sé come peccatore e conoscenza di Dio sono interrelate: sicché anche la crisi che interviene nella vocazione, durante il ministero, può essere l'occasione per rinnovare la propria sequela del Signore.
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Come avviene a Pietro, quando, dopo aver rinnegato per tre volte il suo Signore contraddicendo così il suo cammino e la sua vita, viene raggiunto dallo sguardo del Signore che suscita in lui il ricordo delle parole del Signore e le lacrime di pentimento. (85) Ebbene, Elia all'Horeb esperisce Dio non nel vento, non nel terremoto, non nel fuoco, cioè negli elementi teofanici manifestatisi al Sinai a Mosè, ma nella «voce di un silenzio sottile». (86) E la crisi diviene rinnovata esperienza di Dio che cambia anche il focoso Elia in un uomo mite e misericordioso.
Uscendo dagli esempi biblici e venendo alla situazione dei presbiteri, è bene ricordare che nelle crisi si tratta di restare, di rimanere, senza prendere decisioni affrettate. Si tratta di mettere in pratica la virtù della perseveranza, del biblico ypo-ménein, di "restare sotto i colpi", di "tener duro incassando la testa fra le spalle". È possibile restare facendo memoria di quanto si è vissuto positivamente nel ministero fino a quel giorno: nella preghiera la memoria dell'esperienza passata positiva può aiutare a vivere il presente oscuro aprendo il futuro alla speranza. La preghiera, che è immersione nella verità della vita prendendo una distanza da essa e ponendola di fronte alla parola di Dio,
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aiuta anche il presbitero a vagliare evangelicamente ciò che egli arriva a chiamare, magari in maniera affrettata, come fallimento o insuccesso. E questo soprattutto quando si tratta di esperienze e progetti pastorali. Il presbitero vive a volte l'esperienza di insuccessi pastorali in modo talmente personalizzato da cadere in stati depressivi. Se si fa coincidere personalità e lavoro pastorale, realizzazione di sé e ruolo, allora un insuccesso (che va messo realisticamente in conto) può condurre a una profonda crisi e disarticolazione personale. Se il presbitero vive la sua funzione pubblica, il suo ruolo, come prolungamento della sua personalità, allora gli eventuali fallimenti pastorali vengono ingigantiti e trasmutano in senso di fallimento personale, perdita di autostima, tentazione di abbandono. Dall'aver fallito qualcosa si trapassa indebitamente al senso di fallimento totale di sé. C'è il rischio di far dipendere tutto da sé e di divenire una cassa di risonanza narcisistica che registra sul proprio conto successi e insuccessi. Ora, la preghiera, memoria quotidiana dell' essenziale evangelico, ricorda anche al presbitero che le crisi, gli insuccessi, le persecuzioni e le contraddizioni, fanno parte della promessa di Cristo a chi lo segue con radicalità: «Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna». (87)
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Inoltre l'ossessione per il risultato, per il successo, per l'esito dell'azione pastorale, va valutata per quello che spesso è: antievangelica. Ci può essere molto evangelo nell'apprendere la lezione di un fallimento pastorale e ci può essere molta idolatria nel vantare un successo pastorale. Scrive molto bene Joseph Ratzinger: «Il sacerdote deve essere un uomo che conosce Gesù nell'intimo, che lo ha incontrato e ha imparato ad amarlo. Perciò dev'essere soprattutto un uomo di preghiera, un uomo veramente "religioso". Senza una robusta base spirituale non può resistere a lungo nel suo ministero. Da Cristo deve anche imparare che nella sua vita ciòche conta non è l'autorealizzazione e non è il successo. Al contrario deve imparare che il suo scopo non è quello di costruirsi un' esistenza interessante o una vita comoda, né di crearsi una comunità di ammiratori o di sostenitori, ma che si tratta propriamente di agire in favore dell'altro. Sulle prime ciò contrasta con il naturale baricentro della nostra esistenza, ma col tempo diventa palese che proprio questa perdita di rilevanza del proprio io è il fattore veramente liberante.
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Chi opera per Cristo sa che è sempre uno a seminare e un altro a raccogliere. Non ha bisogno di interrogarsi continuamente: affida al Signore ogni risultato e fa serenamente il suo dovere, libero e lieto di sentirsi al sicuro del tutto. Se oggi i sacerdoti tante volte si sentono ipertesi, stanchi e frustrati, ciò è dovuto a una ricerca esasperata del rendimento. La fede diviene un pesante fardello che si trascina a fatica, mentre dovrebbe essere un'ala da cui farsi portare». (88)
Allora la preghiera diviene elaborazione spirituale (non solamente psicologica) del lutto, dello scacco, della perdita. E diviene ambito di possibile integrazione di esso, per fede, nel cammino di Cristo che è anche il proprio personale cammino. Dare il nome di croce alla propria personale sofferenza e al proprio fallimento, al proprio lutto, significa integrare evangelicamente questo elemento che, altrimenti, può scoraggiare il presbitero e spingerlo all'abbandono. Inoltre, nella serenità e nella calma della preghiera si può valutare alla luce dell'evangelo se ciò che il presbitero chiama fallimento è tale anche secondo il vangelo, oppure se è tale solo in riferimento alle attese che egli nutre su di sé.
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Preghiera e interiorità

Il trascorrere del tempo e le varie fasi della vita in cui l'esistenza ci conduce hanno una valenza spirituale. Il passare del tempo esige una maturazione della preghiera, un suo divenire più adulta, un suo non restare infantile, regressiva. Va applicato anche alla preghiera ciò che Paolo esprime nella sua Prima lettera ai Corinzi 13, 11: «Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato». E soprattutto la preghiera va sempre più accordata con un'umanità intensa e un'interiorità viva. Il progredire nella preghiera trova nello sviluppo dell'interiorità il suo criterio cardine. Lo sforzo del presbitero deve essere quello di dare sempre maggiore spessore umano alla sua preghiera. Ovvero, di passare dalla preghiera appresa in seminario, dalle pratiche rassicuranti, a una preghiera più rispondente alla complessità dell'esistenza e all'imprevedibile della vita. Il segreto è sviluppare l'umano, l'umanità che è in noi e che ci ospita, e giungere così a una preghiera che, proprio perché profondamente umana, sa essere relazione autentica con Dio.

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La preghiera come introduzione e sviluppo dell'interiorità conosce questi movimenti fondamentali. Anzitutto l'ascolto. L'ascolto è la forma essenziale e fondamentale della preghiera cristiana. La lectio divina, i suoi due movimenti essenziali di lettura e comprensione del testo (movimento maggiormente "oggettivo") e di applicazione a sé e preghiera (momento maggiormente "soggettivo"), è il quotidiano esercizio che può aiutare il formarsi nel presbitero di un «cuore che ascolta», (89) sviluppando il senso e la capacità di discernimento nel presbitero e plasmandolo in persona capace di ascolto, capace dunque di quella che è la fondamentale relazione pastorale: ascoltare le persone, ascoltare la loro sofferenza, accoglierle mediante l'ascolto, farle sentire amate. La preghiera umanizza il presbitero rendendolo sempre più uomo di ascolto. E la Chiesa oggi ha bisogno non di funzionari o di grigi esecutori, non di silhouette spirituali, ma di uomini, uomini umanizzati, uomini con profondità di vita interiore e dunque uomini "umani". Soprattutto, il primato accordato nella preghiera all'ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture pone il presbitero in un movimento di quotidiana apertura e disponibilità alla conversione.
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Movimento essenziale della preghiera è anche il silenzio. Il silenzio difficile perché ci scruta, ci pone nel faccia a faccia con noi stessi, con le presenze che traversano il nostro cuore. Il silenzio così essenziale al presbitero per forgiare una parola significativa e autorevole, non trita, non ripetitiva, non stanca e stancante, non banale o sloganistica, non pigra; il silenzio per apprendere l'arte di una comunicazione autentica, rispettosa, vitale. Il silenzio che è spazio fatto al Signore che bussa al nostro cuore. Il silenzio in cui si purificano le relazioni quotidiane e in cui si affina la responsabilità della parola, che è essenziale per il presbitero a cui è affidato in special modo il ministero della parola, che è servo della parola del Signore: «Appartiene alle più grandi responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode». (90)
La preghiera esige solitudine e fa crescere l'interiorità dell'uomo grazie alla solitudine.
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Se oggi già è rara la solitudine, per il presbitero, che è quotidianamente immerso in molteplici relazioni e attività che lo pongono a contatto con persone di svariate età, condizione sociale, spesso portatrici di problemi gravi e drammatici, essa è essenziale per trovare forza e saldezza, per avere radici profonde e per apprendere l'arte di differenziare le relazioni e i linguaggi (la carità dev'essere intelligente, altrimenti in suo nome si possono combinare molti guai). Inoltre è nella preghiera nella solitudine e nel silenzio che si arriva a esperire la presenza del Signore che abita in noi.
Particolarmente da incoraggiare per i presbiteri è la lettura. Non solo la lettura della Scrittura nella lectio divina, ma la lettura di buona letteratura, di testi che aggiornano su tematiche inerenti al ministero o consentono approfondimenti circa la vita di fede. Ha scritto Paul Ricoeur: «Contrariamente alla tradizione del Cogito e alla pretesa del soggetto di conoscere se stessi per intuizione immediata, ci si comprende passando attraverso le grandi testimonianze che l'umanità ha deposto nelle opere di cultura.
Se la letteratura non avesse dato articolazione ed espressione linguistica all'amore e all'odio, ai sentimenti etici e a tutto quello che in generale forma noi stessi, ben poco ne sapremmo.
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Comprendere significa comprendersi di fronte al testo, vale a dire non imporre al testo la propria limitata capacità di capire, bensì esporsi al testo per ricavarne una più ampia dimensione di Sé». (91) Una vita interiore ricca è una vita interiore nutrita di buone letture. Non a caso un recente documento dei vescovi francesi rivolge un pressante invito alla lettura ai credenti. Vi si dice, tra l'altro: «In un rituale del terzo secolo il ministero dellettorato è conferito mediante la consegna del libro e non tramite l'imposizione delle mani. Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, lo statuto molto particolare del libro nella vita cristiana e nella costruzione dell'autentica comunità [...]. Attraverso i libri, ciascuno può costruirsi diversamente dagli altri e accedere a una vita interiore autonoma con riferimenti propri, alla propria intima geografia, alla propria identità particolare [...], Il libro richiede anche un minimo di silenzio interiore. Un ritiro, un difendersi da ciò che importuna [...]. Bisogna tornare al cuore dell'atto della lettura. Come l'atto dello scrivere, esso parla della segreta costruzione della libertà interiore». (92)
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Una preghiera che plasmi l'interiorità dell'uomo non può essere scissa dal pensare. Il termine ebraico che designa la preghiera, tefillah, significa" giudizio", "pensiero in azione". Pregare è pensare la propria vita e le proprie relazioni davanti a Dio per arrivare a vivere in obbedienza al volere e alla parola di Dio. Questa preghiera, così cosciente, diviene un vero e proprio atto di ordinamento della propria interiorità. I Salmi, certamente la migliore scuola di preghiera, ci insegnano a pensare Dio e a relazionarci a lui nelle diverse situazioni dell'esistenza, siano esse gioiose o dolorose, festose o tragiche. Un presbitero che sappia nutrire così la propria interiorità vedrà crescere, in sé, la propria saldezza e, nelle relazioni con le persone, la propria autorevolezza.
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L'intercessione

Presidente dell' eucaristia della comunità, servo della comunione nella comunità ecclesiale, il presbitero è pastore anche perché intercessore.
Inter-cedere significa "fare un passo tra", "interporsi" fra due parti, indicando così una compromissione attiva, un prender sul serio tanto la relazione con Dio, tanto quella con i fratelli, gli uomini. Nell'intercessione il presbitero esercita il suo ministero di pastore portando davanti a Dio i cristiani della comunità di cui egli ha la responsabilità e ricevendoli così nuovamente da Dio: nell'intercessione, il presbitero si dispone ad un'assunzione di responsabilità radicale nei confronti dei membri della comunità che gli è affidata.
Lì le relazioni vengono purificate perché si fa regnare l'evangelo su tutte le situazioni di conflitto, di incomprensione, di tensione, di antipatia o diffidenza o di ostilità. L'intercessione ci porta non tanto a ricordare a Dio i bisogni degli uomini (egli, infatti, «sa ciò di cui abbiamo bisogno» (93), ma porta noi ad aprirci al bisogno dell'altro facendone memoria davanti a Dio. Si comprende così come !'intercessione, il pregare per gli altri sia la custodia più efficace delle relazioni del presbitero. Nell'intercessione io porto l'altro davanti al Terzo che è Signore mio e dell' altro.
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In quell' operazione spirituale il presbitero entra nella vita responsabile cristiana: «Nella piena solidarietà con gli uomini peccatori e bisognosi, essendo anche noi peccatori e bisognosi, facciamo un passo, entriamo in una situazione umana in comunione con Dio che in Cristo ha fatto il passo decisivo per la salvezza degli uomini». (94) E il limite dell'intercessione cristiana, come appare dal Cristo crocifisso, è la sostituzione vicaria, il dono della vita, la croce. L'intercessione è luogo di intelligenza evangelica dell'altro. Lì vediamo come la preghiera del presbitero si lasci plasmare dalla vita e dalle storie personali di coloro che fanno parte della sua comunità. L'intercessione allena il presbitero alla duttilità, all'assunzione di responsabilità, ma anche alla custodia della sana e buona distanza nelle relazioni con le persone. Nell'intercessione il presbitero esperimenta la verità della frase di Aelredo di Rievaulx: «Eccoci, io e te, e in mezzo, come terzo, Cristo». Davvero, dunque, la preghiera per gli altri è esercizio di sollecitudine e responsabilità e lotta contro il cinismo. E il cinismo, che consiste essenzialmente nel confessare senza vergogna il grado della nostra indifferenza nei confronti della realtà dell' altro, è tentazione che l'avanzare degli anni rende più concreta e forte. Per questo il presbitero intercede adeguatamente se, portando le domande e le situazioni degli altri nella sua preghiera, vi porta anche se stesso come domanda. Del resto anche il Cristo,
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proprio nella sua morte in croce (almeno secondo i vangeli di Marco e di Matteo), si è rivolto al Padre nel momento supremo della sua esistenza con una domanda, un «perché?» drammatico: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». (95) E la nostra preghiera ci conforma al Cristo crocifisso.

Preghiera e immagine di Dio

Quanto appena detto ci consente un ultimo approfondimento. Nella preghiera noi ci rivolgiamo al Dio «che non si vede», (96) ma ci si rivolge a Lui nello Spirito santo e tramite il suo Figlio, che ce ne ha narrato il volere, l'agire, il sentire, insomma, ce ne ha mostrato il volto. Ma rivolgendoci al Dio che nessuno ha mai visto né può vedere, l'uomo si forgia delle immagini di Dio. Ma le immagini di Dio, anche le più sublimi, anche quelle a cui fa ricorso la Bibbia per "dire Dio", non esauriscono Dio: Dio è oltre tutte le immagini che ne possiamo forgiare, è al di là di tutte le definizioni che ne possiamo dare. Anzi, le immagini di Dio che l'uomo crea rischiano di essere una riduzione idolatrica di Dio, una sua riduzione a immagine dell'uomo. Ora, l'evangelo ci mostra Gesù Cristo come la piena e perfetta «immagine del Dio invisibile», (97) e il luogo dell'abolizione delle immagini di Dio è proprio la croce:
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il silenzio e il buio che avvolgono la croce per tre ore (98) dicono simbolicamente che non c'è più immagine di Dio e parola su Dio. Lì, Dio non è più ridotto a una definizione o ad una immagine manufatta, dunque a idolo. Ma si tratta di riconoscere scandalosamente l'immagine di Dio nell'ignudo appeso alla croce! Il Cristo crocifisso annichilisce Dio come immagine dell 'uomo e presenta un uomo come immagine di Dio. È lo scandalo della croce che sta al cuore della fede cristiana. E la preghiera ha come fine di conformare il volto dell' orante a quello del Cristo, e questi crocifisso. L'esperienza di preghiera di Paolo narrata nella Seconda lettera ai Corinzi 12, 1-10 mostra che anche la preghiera non ascoltata e non esaudita (Paolo che prega invano che gli venga tolta la «spina nella carne») può divenire occasione di conoscere un esaudimento paradossale: «Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». (99) L'esaudimento consiste nell'essere reso somigliante al Cristo, e questi crocifisso. Quando nella nostra vita possiamo dire di patire ingiustamente a motivo della fede, allora possiamo anche sapere di avere qualcosa a che fare realmente con il Cristo Signore.
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Conclusione

Pregare ringraziando quotidianamente per la vocazione ricevuta e per il ministero affidato dal Signore è essenziale alla preghiera del presbitero per mantenere la fedeltà al Signore e per vivere l'eucaristia. Tenere gli occhi fissi su Cristo, sul Crocifisso-Risorto, porta la preghiera del presbitero a essere un continuo movimento di apertura all'uniformazione al Cristo stesso e a leggere le situazioni di contraddizione e di fallimento sulla scia del cammino di Cristo, dunque come occasioni di sequela di Cristo. Avendo questo orizzonte inferiore, il presbitero potrà, con la sua semplice e quotidiana preghiera, crescere nella fede nelle diverse fasi della sua vita, rendendo grazie per il passato, accettando gioiosamente il presente e dicendo "sì" al futuro. Certo che l'essenziale della fede è che si compia in lui la volontà di Dio.

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[69] Luciano Manicardi (1957), monaco, è entrato nella comunità monastica di Base nel 1980, dove è il responsabile della formazione culturale dei novizi. Il testo è tratto da: Luciano Manicardi, La preghiera del presbitero, in La rivista del clero italiano, Vita e Pensiero, Milano, n. 9/2003, pp. 564-584. Per gentile concessione dell'Editore.
[70] Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, edizione italiana a cura di Gianfranco Bonola, Marietti, Casale Monferrato (AL), 1985, p. 288.
[71] Jacques Bur, La spiritualitè des pretres, Cerf, Paris, 1997, p. 136; che cita il rituale dell'ordinazione diaconale.
[72] Cfr. Jean-Claude Sagne, La preghiera come invocazione alla presenza invisibile e silenziosa del Padre, in Concilium, n. 9/1972, pp. 27-39.
[73] Eberhard Jüngel, Che cosa significa dire: Dio è amore?, in Protestantesimo n. 3/2001, p.168.
[74] Cfr. su questo tema Giovanni Moioli, L'annuncio, momento formativo del predicatore stesso, o mestiere?, in Giovanni Moioli, Scritti sul prete, Glossa, Milano, 1990, pp. 253301. Cfr. anche Giannino Piana, Se prevale il ruolo, in Presbyteri n. 8/1997, pp. 581-590.
[75] Dietrich Bonhoeffer, Pregare i Salmi con Cristo, Queriniana, Brescia, 1969, p. 63.
[76] Romano Guardini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia, 19948, p. 10.
[77] Agatone 9, in Vita e detti dei Padri del deserto, l, a cura di Luciana Mortari, Città Nuova, Roma, 1975, p. 117.
[78] Cfr. Association pour l'étude de la pensée de Simone Weil [ndr].
[79] Cfr. Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità, Rizzoli, Milano, 1999, pp. 71-73. 80 La mente si accordi alla voce [ndr].
[81] Cfr. bBerakhot 30b. Cfr. www.wikipedia.it. alla voce: Talmud [ndr].
[82] Regola Benedettina VII, 67-69.
[83] Richard Church, The Voyage Home, citato in Elliott Jacques, Morte e crisi di mezz'età, in Elliot Jacques - Otto F. Kernberg - Clara M. Thompson, L'età di mezzo, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 20.
[84] Seconda lettera a Timoteo, 1, 12.
[85] Cfr. Vangelo secondo Luca, 22, 61-62.
[86] Primo libro dei Re, 19, 12.
[87] Vangelo secondo Marco, 10, 29-30.
[88] Joseph Ratzinger, La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1991, pp. 91-92.
[89] Cfr. Primo libro dei Re, 3, 9.
[90] Hans Georg Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi di ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano, 2002, p. 58.
[91] Paul Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia, 1977, pp. 76-77.
[92] Vescovi francesi (Commissione permanente per l'informazione e la comunicazione), Ritrovare il tempo di leggere, in Il Regno Documenti n. 5/2002, pp. 187-188.
[93] Vangelo secondo Matteo, 6, 32.
[94] Cfr. Enzo Bianchi, op. cit., p. 119.
[95] Vangelo secondo Marco, 15,34. Vangelo secondo Matteo, 27, 46.
[96] Prima lettera di Giovanni, 4, 20.
[97] Lettera ai Colossesi, 1, 15.
[98] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 27, 45.
[99] Seconda lettera ai Corinzi, 12, 9.



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