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La stella del mattino

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    00 29/01/2012 20:18
    STUDI SU APOCALISSE

    La stella del mattino

    Considerazioni pratiche sulla venuta del Signore

    Introduzione

    La venuta del Signore potrebbe essere studiata dal punto di vista dottrinale, ma non è ciò che mi ripropongo di fare qui. Questo soggetto ha una portata così pratica e dà all'anima una così grande freschezza che dispiace farlo scendere sul terreno più o meno sterile di un semplice insegnamento dottrinale.

    La venuta del Signore è una speranza, è la speranza cristiana. Essa esercita un'influenza vivificante sull'anima e santifica tutta la nostra condotta.

    La descrizione della dottrina della venuta del Signore occuperà, quindi, poco posto in queste righe. Mi limiterò ad un breve esposto che sarà sufficiente a chiarire l'aspetto dottrinale di questo soggetto.

    Con l'espressione «la venuta del Signore» si intende, ovviamente, la sua seconda venuta. La prima venuta fu quando Gesù Cristo visse su questa terra.

    La seconda venuta del Signore è uno dei grandi soggetti che il Nuovo Testamento presenta. Di essa distinguiamo due atti ben distinti, separati dall'intervallo di tempo che è compreso tra gli avvenimenti descritti nel cap. 4 di Apocalisse e quelli del cap. 19.

    Il primo atto è la venuta del Signore per i suoi santi (*). In quel momento, tutti i santi addormentatisi da Adamo in poi saranno risuscitati, e quelli viventi, appartenenti alla Chiesa, saranno «tramutati» e rapiti, insieme agli altri, ad incontrare il Signore sulle nuvole, nell'aria, e introdotti nella sua gloria celeste (**). Di questo ci parlano: 1 Tess. 1:10, 4:15-18, 1 Cor. 15:51, 54, Giov. 14:1-3, Ebrei 9:28.

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    (*) Per «santi» la Parola intende gli uomini di fede, i veri credenti, santificati dall'opera di Cristo e non per i loro meriti.
    (**) Questa risurrezione dei santi alla venuta del Signore fa parte della «prima risurrezione». Essa è composta da tre avvenimenti: il primo è la risurrezione di Cristo (Cristo la primizia, il primogenito dai morti: 1 Cor. 15:20, Col. 1:18); il secondo è quella dei santi di cui stiamo parlando ; il terzo è quella dei santi che saranno messi a morte dalla «bestia romana» nel periodo che precede il Millennio (Apoc. 11:11-12 e 20:4-6).

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    Questo primo atto riguarda solo i santi, ed essi soli ne saranno testimoni. È un atto di pura grazia.

    Il secondo atto, invece, è la venuta del Signore con i suoi, i quali saranno manifestati con lui in gloria alla vista del mondo che lo ha rigettato, e continueranno ad essere manifestati nel suo regno sulla terra (il millennio) e nello stato eterno (Col. 3:4, 2 Tess. 1:10, 1 Giov. 3:2, Apoc. 21).

    Questo secondo atto avrà il mondo come testimone (Apoc. 1:7) ed è legato all'esecuzione dei giudizi (il giudizio dei viventi) che precederanno il regno di mille anni (Apoc. 19:11-16, 2 Tess. 1:7-10, Apoc. 20:4, Matt. 25:31-46). Anche in questo i santi saranno associati al Signore (1 Cor. 6:2). (*).

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    (*) Il «giudizio dei morti» non è in relazione diretta con questo secondo atto della venuta del Signore. Esso seguirà il regno di mille anni e avverrà dopo la rivolta finale di «Gog e Magog» e il giudizio di Satana (Apoc. 20:7-15). Dopo ci saranno i nuovi cieli e la nuova terra, cioè lo stato eterno (Apoc. 20:11, 21:1).
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    Al secondo atto della venuta del Signore si riallaccia l'importante questione della responsabilità dei santi nella loro condotta (il «tribunale di Cristo»), anche se il momento esatto non è precisato. Allora, tutti i credenti riceveranno la ricompensa del loro servizio, e si vedrà la perdita causata dalla loro infedeltà. Sono quelle che io chiamo «le promozioni celesti» (Matt. 25:14-30, 2 Cor. 5:9-10).

    La venuta del Signore per i santi («il primo atto» come abbiamo detto) è chiamato «la sua venuta» (1 Tess. 4:15, Giac. 5: 7-8, col termine «Parousia» nel testo originale; Apoc. 3:11 e 22:20, col verbo «Erkomai»)

    La sua venuta coi santi («il secondo atto») è definita con diverse espressioni: «La sua apparizione», «l'apparizione della sua gloria», «l'apparizione della sua venuta» (2 Tim. 4:8, Tito 2:13, 2 Tess. 2:8, col termine «Epifaneia»); «la manifestazione del Signore Gesù», «la sua apparizione con gli angeli» (1 Cor. 1:7, 2 Tess. 1:7, col termine «Apocalupsis»); «la sua manifestazione» (Col. 3:4, col termine «Faneros»); «la venuta del Figliuol dell'uomo» (Marco 13:26, col verbo «Erkomai»); «il giorno di Cristo» e «il giorno del Signore» (Fil. 1:10 e 1 Tess. 5:2).

    Dirò ancora che «il giorno del Signore» è un periodo di tempo che incomincia con la venuta del Figliuol dell'uomo per giudicare (Marco 13:26) — Egli verrà come un ladro (2 Pietro 3:10) — e terminerà dopo il regno di mille anni, quando il Signore rimetterà il regno a Dio Padre, e i cieli e la terra di adesso saranno distrutti (1 Cor. 15:24, 2 Pietro 3:10).

    Il giorno del Signore farà posto al giorno di Dio, con dei nuovi cieli e una nuova terra «nei quali abita la giustizia» (2 Pietro 3:12-13).

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    1. La condotta cristiana e il regno — 2 Pietro 1:3-18
    «La sua potenza divina ci ha donate tutte le cose che appartengono alla vita e alla pietà». Per la fede in Lui, le «preziose e grandissime promesse» sono nostre. La vita eterna, lo Spirito Santo, le relazioni di figli col Padre, l'eredità ecc..., sono tutte già annunciate e promesse nel Vecchio Testamento ed ora date alla fede (2 Tim. 1:2, Tito 1:2, 1 Giov. 2:25, Atti 1:4, 2:39, Efesini 1:13, 2 Cor. 7:1, Rom. 4:13-21, Galati 3:15-29).

    Tutte queste promesse sono realizzate in Cristo (2 Cor. 1:20-22). Avendo noi la natura divina in quanto credenti, tutto ciò che riguarda la pietà è anche nostro; e Pietro parla in dettaglio di queste cose nei v. 5-7 del primo capitolo.

    Dio che ce le ha date, facendoci così fuggire «dalla corruzione che è nel mondo per via della concupiscenza», ci ha chiamati «mercé la propria gloria e virtù». Queste due cose sono caratteristiche della sua chiamata: la gloria per il cielo, la virtù per avanzare, sulla terra, nel cammino che porta alla gloria.

    Ma i doni immensi che possediamo ci rendono responsabili di «aggiungere» l'una all'altra le cose dei v. 5-7. Se desideriamo glorificare Dio la nostra condotta dev'essere la manifestazione ininterrotta di tutti quei caratteri che concernono la vita e la pietà. È come una catena alla quale nessun anello deve mancare; se no, il nostro cammino di testimoni sarà interrotto prima di giungere al termine.

    Ahimè! Questo è capitato nella vita di molti uomini di Dio. Molti hanno cessato di aggiungere queste cose l'una all'altra e, invece di terminare la loro carriera, non ne hanno percorso che una parte. Uno solo, Cristo, il «perfetto esempio di fede», l'ha percorsa in modo perfetto e completo; e noi, perché non lo seguiamo «senza vacillare»? Non ne abbiamo ricevuto dalla sua «divina potenza» la forza necessaria?

    «Mettendo in ciò... ogni premura» abbiamo da «aggiungere» queste cose: alla fede nel Signore la virtù, l'energia spirituale che ci separa dal male per raggiungere la meta, costi quel che costi; la conoscenza, l'intelligenza dei pensieri divini riguardo al cammino da fare; la continenza, la temperanza, il controllo di noi stessi, la pazienza nelle difficoltà, la pietà che si realizza nella comunione con Dio e cerca in ogni cosa la sua gloria, e questo riguardo alle nostre relazioni con Dio; l'amore fraterno nei nostri rapporti con la famiglia di Dio; e l'amore che coinvolge i nostri rapporti d'intimità col Padre e col Figlio.

    Ho detto che uomini di fede, e sovente anche eminenti, hanno visto il loro cammino di testimoni interrotto per non aver «aggiunto» queste cose. Così, il giusto Lot mancò di virtù all'inizio della sua vita; Noè e Davide di continenza; Mosè ed Elia di pazienza; Salomone di pietà. Si potrebbero moltiplicare gli esempi. Quale fu il risultato per quei credenti? Lot fu salvato come attraverso il fuoco; Noè perdette il titolo di capo della creazione rinnovata; la spada non s'allontanò più dalla casa di Davide; Mosè non entrò nella terra promessa; Elia dovette ungere Eliseo profeta al posto suo; e Salomone fu la causa della divisione e della rovina del suo regno.

    Questi uomini di Dio non furono dunque salvati? Certo che lo furono, poiché vediamo apparire Mosè e Elia sul monte Santo nella stessa gloria del Figlio dell'Uomo, ma tutti hanno mancato. Alcuni di loro sono stati, senza dubbio, ristabiliti dalla disciplina, ma altri, per la loro infedeltà, furono privati della loro corona.

    Aggiungendo fedelmente queste cose l'una all'altra, noi «renderemo sicura» la nostra «vocazione ed elezione»; non certo nel cuore di Dio, ma nel nostro cuore, ed anche in quello dei nostri fratelli, come si vede in 1 Tess. 1:3-4: «Ricordandoci del continuo... dell'opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore, e della costanza della vostra speranza nel nostro Signor Gesù Cristo; conoscendo fratelli amati da Dio, la vostra elezione». Chiunque aggiunge queste cose proseguirà il suo cammino con la benedetta consapevolezza dei suoi privilegi.

    Queste riflessioni ci portano al soggetto speciale sul quale desidero insistere. I credenti ai quali Pietro si indirizza dovevano vivere in vista dell'entrata nel regno; Dio aveva dato loro una speranza che doveva potentemente influenzare il loro cammino e renderli premurosi nel fare il bene. «Facendo queste cose — dice l'apostolo — non inciamperete giammai, poiché così vi sarà largamente provveduta l'entrata nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo». Il regno eterno era la meta del loro pellegrinaggio; lo avrebbero ben presto condiviso con Cristo. Quando il Nuovo Testamento ci parla di responsabilità nel servizio, ci presenta sempre come meta del nostro cammino la venuta del Signore con i suoi per regnare, e non la sua venuta per rapire i santi.

    Notiamo questa parola: «Vi sarà largamente provveduta l'entrata»; tale è la fine d'un cammino fedele. L'entrata è data atutti, ma non a tutti «largamente». Il credente può avere una larga o una stretta entrata. Quest'espressione mostra molto bene ciò che la nostra infedeltà ci fa perdere. Abbiamo noi la speranza d'essere salvati come «attraverso il fuoco», oppure di trovare spalancata, al termine del nostro pellegrinaggio, la porta che ci darà accesso nella gloria del regno?

    Queste cose avevano una grande importanza agli occhi dell'apostolo Pietro; infatti egli dice: «Perciò avrò cura di ricordarvi del continuo queste cose, benché le conosciate, e siate stabiliti nella verità che vi è stata recata». I credenti ai quali s'indirizzava, come anche noi, purtroppo, erano in pericolo di dimenticarle e di lasciarsi andare alla sonnolenza spirituale. La loro attività aveva perso il suo primo slancio, e la loro speranza il suo sapore. Così egli aggiunge: «E stimo cosa giusta, finché sono in questa tenda, di risvegliarvi ricordandovele». E più avanti: «Ma mi studierò di far sì che dopo la mia dipartenza abbiate sempre modo di ricordarvi di queste cose». Poi è come se dicesse: Quanto a me, ho visto questo regno con i miei occhi. Ho assistito sul monte santo alla potenza e alla venuta del nostro Signore Gesù Cristo. Ho contemplato in anticipo la sua maestà futura. Lui, il Signore, l'ha avuta quella larga entrata! Poiché Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria quando giunse a lui quella voce dalla magnifica gloria: «Questo è il mio diletto Figliuolo, nel quale mi sono compiaciuto!». Dio gli ha dato, l'ho udito con le mie orecchie, il nome di «diletto», oggetto delle sue delizie.

    Tale è l'entrata del Signore Gesù nel suo regno. Ogni potestà gli è data, nel cielo e sulla terra, in virtù della sua obbedienza. Il testimone fedele, il Capo e perfetto esempio di fede, ha «aggiunto» queste cose in un modo perfetto, e fino alla fine. Egli sarà acclamato con le parole del Salmo 24: «O porte, alzate i vostri capi; e voi, porte eterne, alzatevi; e il Re di gloria entrerà. Chi è questo Re di gloria? È l'Eterno, forte e potente, l'Eterno potente in battaglia. O porte, alzate i vostri capi; alzatevi, o porte eterne, e il Re di gloria entrerà. Chi è questo Re di gloria? È l'Eterno degli eserciti; egli è il Re di gloria».

    A Lui pure si indirizzano le parole del Salmo 45: «Cingiti la spada al fianco, o prode; vestiti della tua gloria e della tua magnificenza. E nella tua magnificenza, avanza sul carro, per la causa della verità, della clemenza e della giustizia; e la tua destra ti farà vedere cose tremende. Il tuo trono, o Dio, è per ogni eternità; lo scettro del tuo regno è uno scettro di dirittura. Tu ami la giustizia e odi l'empietà. Perciò Iddio, l'Iddio tuo, ti ha unto d'olio di letizia a preferenza dei tuoi colleghi».

    Quanto a noi, fratelli, non possiamo entrare nel suo regno come Lui, ma possiamo entrarvi con Lui! Egli non vi entrerà solo.

    Pietro lo aveva visto sul «monte santo», nel carattere ch'Egli avrà quando ritornerà. Lo aveva visto con Mosè ed Elia per compagni, tipo dei santi «risuscitati» e dei santi «tramutati», i quali formeranno il suo corteo nel giorno del suo regno eterno.

    Se siamo fedeli, se «aggiungiamo queste cose» in vista della sua apparizione, le porte eterne che si alzeranno per Lui non si abbasseranno per noi, e saremo salutati, al nostro arrivo, con queste parole: «Va bene, buono e fedele servitore; ...entra nella gioia del tuo Signore!»
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    2. La stella mattutina e il regno — 2 Pietro 1:16-20; Apoc. 2:26-28; Apoc. 22
    Sul «monte santo» Pietro aveva avuto la meravigliosa visione del «Figliuol dell'uomo» venuto «nel suo regno» (Matteo 16:28). Là le glorie che dovevano accompagnare questa venuta gli erano state rivelate; e gli erano rimaste scolpite nel cuore fino al momento di lasciare «la sua tenda». Prima di tutto aveva contemplato la maestà del Figlio dell'uomo, dichiarato Figlio di Dio «dalla magnifica gloria»; aveva visto il suo volto risplendere come il sole e i suoi vestiti bianchi come la luce. I suoi sguardi si erano poi fermati su due santi celesti che lo accompagnavano, Mosè ed Elia.

    Pietro era anche stato testimone dei discorsi che si tengono nella gloria e vi si era familiarizzato. Con le sue orecchie aveva sentito la voce del Padre parlargli del suo Figlio diletto.

    I suoi compagni e lui rappresentavano, per così dire, la scena inferiore e terrestre del regno, ed erano stati illuminati dai raggi del sole di giustizia che si levava sul monte.

    Questa visione confermava tutta quanta la profezia poiché il soggetto coi quale termina ogni profezia è il regno di Cristo, soprattutto nella sua parte terrestre. Citando la parola profetica l'apostolo aggiunge: «Alla quale fate bene di prestare attenzione, come ad una lampada splendente in un luogo oscuro». La profezia ha un valore molto importante per le nostre coscienze. Parlandoci del regno, essa ci indica pure il modo con cui verrà stabilito: «col giudizio!». E non può essere altrimenti perché il mondo è corrotto e il Signore non regnerà in questo ambiente di corruzione.

    Il mondo è un «luogo oscuro» e tenebroso; la profezia è una lampada che ci permette di discernere il suo stato attuale, e che proietta la sua luce sulla condizione finale degli uomini, quando il Signore verrà con tutti i suoi santi.

    I fedeli sono in pericolo di lasciarsi vincere dal sonno in mezzo a queste tenebre; la lampada profetica ne fa vedere l'orrore ed aiuta ad individuare i tranelli nascosti. Essa ci separa dal mondo per mezzo del timore.
    — Come associarsi con ciò che sta per essere annientato dal giudizio?
    — Come fare dei piani per l'avvenire in un mondo che non ha avvenire?
    — Come stabilirsi in un luogo dove tutto sta per essere sconvolto e distrutto?

    Certo, noi «facciamo bene di prestare attenzione», e credo che la negligenza di molti credenti riguardo alla profezia abbia portato i suoi tristi frutti rendendo sempre meno reale la loro separazione dal mondo.

    Ma adesso abbiamo più ancora che la lampada. L'apostolo aggiunge: «Finché spunti il giorno». Noi siamo figli della luce, figli del giorno, figli del Regno, e siamo resi capaci di avere parte alla sorte dei santi nella luce. Nell'attesa, siamo già liberati dal potere delle tenebre e, se non siamo ancora entrati nel regno del Re di giustizia, di pace e di gloria sulla terra, siamo però trasportati in un regno infinitamente più diletto. Già godiamo in Cristo della relazione di figli e di tutto l'amore che il Padre ha per lui. Presto il giorno si leverà; possiamo camminare come figli del giorno!

    La profezia illumina oggi una terra rovinata; il sole di giustizia illuminerà una terra rinnovata. Esso non si è ancora levato; ciò nonostante noi ne conosciamo lo splendore, come Pietro lo contemplò sul monte santo.

    Ma Pietro menziona ancora un'altra luce: quella della stella mattutina: «Finché... la stella mattutina sorga nei vostri cuori». Se il sole rischiara la terra, la stella mattutina ha il cielo come sfera. Essa attrae lo sguardo verso di sé e verso gli spazi infiniti dove brilla la sua pura luce. La stella mattutina si leva molto prima dell'alba, e solo chi è sveglio prima dell'alba ha il privilegio di vederla. La stella mattutina è Cristo quando apparirà dal cielo agli occhi di tutti i suoi. Non lo vediamo ancora, ma siamo già giunti al momento in cui lo vedremo apparire; poiché «la notte è avanzata, il giorno è vicino» (Romani 13:12). Questa stella si è già levata nei nostri cuori; già la speranza celeste occupa i nostri pensieri e riempie i nostri affetti, e questa speranza è il nostro Salvatore in persona.

    Nel cap. 2:26-28 dell'Apocalisse troviamo di nuovo il regno e la stella mattutina riuniti. In questo passo lo Spirito Santo non indica, a quelli che realizzano quaggiù la vita che hanno ricevuto da Dio, la porta d'entrata del regno, come in 2 Pietro 1; qui è Gesù che offre a colui che vincerà una stessa parte con sé nel governo del suo regno: «A chi vince e persevera nelle mie opere sino alla fine io darò podestà sulle nazioni, ed egli le reggerà con una verga di ferro frantumandole a mo' di vasi d'argilla; come anch'io ho ricevuto podestà dal Padre mio». È al Signore Gesù Cristo, al Figlio dell'uomo, dichiarato Figlio di Dio, che queste cose sono date nel Salmo 2: «Chiedimi, io ti darò le nazioni per tua eredità e le estremità della terra per tuo possesso. Tu le fiaccherai con uno scettro di ferro; tu le spezzerai come un vaso di vasellaio» (vedere Apoc. 19:15).

    Noi partecipiamo al suo regno; governeremo con Lui. Ogni uomo che oserà elevarsi contro Cristo sarà immediatamente colpito.

    Poi il Signore aggiunge: «Egli darò la stella mattutina». Questo è molto più del regno e del governo; più ancora di una speranza celeste, della stella «nel cuore». È l'astro, la stella, la persona stessa di Cristo. È come se dicesse: Vi darò «me stesso nel cielo, con lo stesso carattere col quale sono venuto a prendervi per rivestirvi della mia grazia e della mia bellezza celeste; sarò la vostra parte preziosa lassù, prima di essere manifestato al mondo».

    Per ottenere una tale parte, non vale forse la pena di lottare continuamente e di vincere? Di contraddire senza stancarci, con tutta la nostra vita, i principi satanici che reggono il mondo? Questa parte ci è presentata qui come ricompensa. A quelli che vinceranno Egli darà il regno, ma avranno Lui, Lui stesso, come parte speciale nel riposo e nella beatitudine dei luoghi celesti.

    Troviamo una terza volta il regno e la stella mattutina in Apocalisse 22:16. Qui vediamo le benedizioni estendersi ed elevarsi ancora di più per acquistare un'intimità che non è raggiunta nei passi precedenti. Un grido si fa udire lungo tutto questo capitolo: «Io vengo presto». Nel passo che ci occupa, il Signore che viene si presenta nella sua dignità di Re. Egli è «la radice e la progenie di Davide». È la sorgente, come pure l'erede, di tutte le grazie assicurate all'Unto dell'Eterno; queste grazie del regno Egli le vuole dare ai suoi come ricompensa. Dichiara beato colui che serba le parole della profezia di questo libro (v. 7); dichiara ancora beati coloro che lavano le loro vesti, che hanno fatto ricorso al sangue dell'Agnello come unica sorgente di purificazione (v. 14).

    Ma in questo capitolo non si limita a dare loro qualcosa (come al cap. 2 il governo della terra e delle nazioni); li introduce nella regione più elevata del regno, cioè nella sfera celeste. Entrare nella città, aver diritto all'albero della vita del paradiso di Dio, nutrirsi dei suoi frutti: questa è la loro parte. Il fiume d'acqua viva che esce dal trono di Dio e dell'Agnello li ristora eternamente; il loro privilegio è di servire il Signore nella gloria, di vedere il suo volto, di manifestare pubblicamente e pienamente le sue perfezioni, portando il suo nome sulle loro fronti. Essi sono nella piena luce del sole dell'eternità; regnano nei secoli dei secoli (22:1-5).

    Questo avvenire glorioso stiamo per raggiungerlo! Saremo noi tentati di seguire invece altre vie invece della sola via che là conduce? Contiamo sulla grazia di Dio, siamo fedeli, combattiamo il buon combattimento, serbiamo la fede, e queste cose saranno nostre eternamente!

    Gesù aggiunge: «Io sono... la lucente stella mattutina». Con questo termine si presenta Egli stesso a noi. Nel cap. 2 di Apocalisse Egli è la nostra parte nel cielo prima di manifestarsi al mondo; qui si presenta davanti agli occhi nostri nel suo splendore personale, come Colui che viene. Come un tempo Isacco andò incontro a Rebecca, così Egli viene incontro alla sua sposa. Non invierà dei messaggeri, neppure il capo dei suoi angeli; verrà personalmente! Può forse darci una più grande prova del suo amore? E noi, diciamo come Rebecca: «Sì, andrò»? (Gen. 24:59). Siamo noi partiti per incontrarlo?

    Lo Spirito Santo, il nostro Eliezer, ci parla di Lui durante il cammino, risvegliando così i nostri affetti per lo Sposo. Abbiamo noi un orecchio attento a tutto ciò che ci dice di Lui? Se così è, risponderemo con tutto il nostro cuore a questo grido, prima lontano, poi sempre più vicino: «Si, vengo tosto».

    Vieni, dice la sposa, d'accordo col suo Eliezer che conosce Lui così bene. «Amen! Vieni, Signore Gesù!».

    Un Cristo che viene nel suo regno fa appello alla nostra coscienza; la Stella mattutina invece si indirizza al nostro cuore. Non trascuriamo né l'uno né l'altro. In ambedue i casi si tratta di Lui. Amiamo sia la sua apparizione sia la sua venuta. Se ci troverà così quando verrà, il suo cuore ne sarà soddisfatto!
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    3. «Io vengo tosto» — Apocalisse 22
    L'Apocalisse è un libro di giudizi e la venuta del Signore che deve eseguirli ne è il soggetto principale.

    Una delle prime parole del 1° capitolo è: «Ecco, egli viene con le nuvole».

    Per motivi diversi i capitoli 2 e 3 sono pieni di allusioni alla sua venuta. «Verrò tosto a te, rimuoverò il candelabro dal suo posto», dice ad Efeso; e a Pergamo: «Verrò tosto a te, e combatterò contro a loro con la spada della mia bocca».

    A Tiatiri dice: «Quel che avete tenetelo fermamente finché io venga»; e a Sardi: «Io verrò come un ladro, e tu non saprai a quale ora verrò su di te». infine a Filadelfia: «Io vengo tosto; tieni fermamente quello che hai, affinché nessuno ti tolga la tua corona».

    Dai capitoli 4 a 11, sono descritti i preparativi della sua venuta, finché queste parole risuonino: «Il regno del mondo è venuto ad essere del Signor nostro e del suo Cristo», e: «Noi ti ringraziamo, o Signore... perché hai preso in mano il tuo gran potere, ed hai assunto il regno».

    Al capitolo 19, lo vediamo uscire dal cielo, e combattere in giustizia. Infine al capitolo 22, udiamo il grido: «Io vengo tosto».

    La lettura di questi numerosi passi dimostra che il Signore viene in due modi assolutamente distinti: in grazia e in giudizio; l'Apocalisse si occupa principalmente dell'ultimo. Perché il Signore viene come giudice? Perché la Chiesa responsabile (cioè «quelli che abitano la terra») e il popolo giudeo sono in una condizione tale che al Signore non resta, dopo una lunga pazienza, che colpirli nella sua ira. Troviamo dunque nel libro dell'Apocalisse la rovina completa dell'uomo che attira su di sé il giudizio di Dio con la venuta di Cristo; la sua venuta in grazia è citata, in questo libro, solo in un piccolo numero di versetti. Il libro si riassume poi, nel cap. 22, con questo grido pressante ripetuto tre volte: «Io vengo tosto».

    Egli viene, abbiamo detto, in grazia prima e in giudizio poi, per la felicità o per l'infelicità. È per la felicità al v. 7: «Ecco, io vengo tosto. Beato chi serba le parole della profezia di questo libro». Ma cosa significa «serbare le parole della profezia»? Significa mettere in pratica, realizzare le due grandi verità di cui abbiamo parlato; la rovina dell'uomo e il giudizio di Dio; realizzarle con una santa separazione da ciò che deve essere giudicato, e anche vivere in vista della prossima apparizione di Colui a cui apparteniamo.

    Il primo grido: «Io vengo tosto», si rivolge più direttamente ai credenti che attraversano gli avvenimenti descritti in Apocalisse; ai 144.000 segnati d'infra i Giudei e all'immensa moltitudine salvata di mezzo alle nazioni (cap. 7). Egli «viene presto» per loro, al fine di introdurli nella beatitudine del suo Regno. Ma anche alla Chiesa può applicarsi questa promessa di Cristo; essa pure deve serbare le parole della profezia di questo libro; essa deve amare l'apparizione del Signore.

    Al v. 10 l'angelo parla al profeta: «Non suggellare le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino». Oggi non siamo come al tempo di Daniele al quale fu detto: «E tu, Daniele, tieni nascoste queste parole, e sigilla il libro sino al tempo della fine» (Daniele 12:4). Oggi il libro non è sigillato, poiché il tempo è vicino, Dio vuole che lo scritto profetico sia completamente aperto, affinché ciascuno possa prenderne conoscenza. Senza dubbio il mondo non può comprenderlo, e quando glielo si presenta, come fece Isaia dicendo: «Leggi questo, ti prego», esso risponde: «Non posso perché è sigillato»; oppure: «Non posso leggere» (Isaia 29:11). Ma come mai molti credenti dicono: «Questo libro è misterioso, non ci capisco niente»? Questo libro non è sigillato; se non lo comprendiamo, può dipendere dal fatto che la venuta del Signore occupa poco posto nel nostro cuore, e ha scarso interesse per noi.

    Fratelli, il tempo è vicino; vicino è il momento in cui non sarà più possibile cambiare lo stato morale e il destino degli uomini. Essi sono già sulla piattaforma del patibolo; poco tempo ancora e sarà troppo tardi per ravvedersi: «Chi è ingiusto sia ingiusto ancora; chi è contaminato si contamini ancora; e chi è giusto pratichi ancora la giustizia; e chi è santo si santifichi ancora».

    Il Signore viene; è così vicino che troverà ciascuno di noi nella condizione in cui siamo adesso. Per gli ingiusti e i contaminati sarà troppo tardi.

    Com'è terribile per loro questa parola: «Io vengo tosto, e il mio premio è meco per rendere a ciascuno secondo che sarà l'opera sua» (v. 12)! Questo secondo «Io vengo tosto» risuona come una campana a morto per i peccatori!

    Il terzo «Io vengo tosto» (v. 20), si indirizza alla Sposa che veglia aspettando il suo Sposo. Essa è come una sentinella; ha gli occhi fissi non sulla terra ancora avviluppata dalle tenebre ma al cielo, per vedervi apparire la stella mattutina, che prelude al giorno. Come potrebbe la Sposa non sussultare a questo grido? Eppure, quanti credenti non vi hanno neppure risposto! Quanti tra noi sanno rispondere alle sollecitudini della vita terrena, mentre la venuta dei Signore li lascia indifferenti! Fratelli, udite questo grido «Io vengo tosto»? Colui che ode dica: «Vieni». Anime tormentate, anime infelici, avete sete di cose migliori? «Chi ha sete venga». Voi tutti ai quali oggi si indirizza la Parola, venite, comperate senza denaro. «Chi vuole, prenda in dono dell'acqua della vita»!

    La voce di Gesù si spande nel cuore della sposa e ravviva le sante affezioni che nascono dalla conoscenza del legame che la unisce allo Sposo; vuole attirare a Cristo il cuore di tutti i credenti; e chiama le anime assetate non ancora venute alla sorgente per avere la vita.

    Fratelli, che questi siano anche i nostri desideri e le nostre gioie «finché Egli venga»!
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    00 29/01/2012 20:20
    4. La conversione e la venuta del Signore — 1 Tessalonicesi 1 e 2:13
    Ci si trova oggi in difficoltà se ci si vuol render conto dello stato reale delle anime. La cristianità è piena di persone che non approvano il razionalismo né l'incredulità moderna, che dicono di accettare come «Parola di Dio» la Scrittura e la Verità, che professano di aver ricevuto Cristo e di conoscere personalmente l'opera della croce; vanno ad ascoltare, ogni domenica, un predicatore più o meno fedele, più o meno convincente ed eloquente, rimanendo più o meno edificati e soddisfatti, e sono abili nel valutare le capacità di quelli che hanno parlato. Tutto questo, però, non prova che siano dei credenti veri.

    L'apostolo Paolo dice ai Tessalonicesi: «Per questa ragione anche noi rendiamo del continuo grazie a Dio perché, quando riceveste da noi la parola della predicazione, cioè la parola di Dio, voi l'accettaste non come parola d'uomini ma, quale essa è veramente, come parola di Dio». La potenza della parola dell'apostolo, l'eccellenza della sua predicazione, il merito di colui che parlava (certamente Paolo aveva tutte le migliori qualità) non era ciò che li aveva attirati. Udendolo, essi avevano, per la fede, ricevuto la sua parola come la vera parola di Dio. Fin dal primo impatto si erano resi conto d'aver a che fare in un modo vivente con Dio e non con l'uomo.

    Certamente l'Evangelo era stato accompagnato in mezzo a loro da atti di potenza (1:5), da segni che allora caratterizzavano l'azione apostolica, ma l'autorità divina della Parola era stata dimostrata in un modo ben diverso e meraviglioso poiché l'apostolo aggiunge: «La quale opera efficacemente in voi che credete».

    Questa autorità era stata dimostrata dai frutti che aveva operato nei loro cuori; ed è proprio questo che manca e mancherà sempre ad un semplice professante, e che costituisce la differenza che c'è tra quelle persone di cui parlavamo all'inizio e i credenti di Tessalonica.

    Il primo di questi frutti è che la Parola li aveva riempiti di gioia; non la soddisfazione passeggera d'aver udito un discorso edificante, ma la gioia dello Spirito Santo (1:6). Così, essendo per loro Parola di Dio, la loro fede l'aveva affermata come tale, e lo Spirito Santo che la comunicava li aveva riempiti di gioia nell'udirla (*).

    _____________________
    (*) Parlo qui soltanto delle verità contenute in questo capitolo, poiché si sa che lo Spirito di Dio, agendo nei cuori, vi produce per prima cosa il pentimento.
    ¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

    I santi di Tessalonica non si erano però fermati a questo punto. Immediatamente questa Parola aveva operato in loro un secondo frutto, la conversione. Essi si erano «convertiti dagli idoli a Dio»; avevano abbandonato la loro religione per servire Colui che avevano imparato a conoscere attraverso la sua Parola. il Dio vivente e vero (in contrasto con gli idoli bugiardi), «e per aspettare dai cieli il suo Figliuolo, il quale Egli ha risuscitato dai morti; cioè Gesù che ci libera dall'ira a venire»!

    In questo modo lo scopo della conversione era raggiunto. Quali servitori del vero Dio, essi si erano immediatamente messi ad aspettare dai cieli il Signore Gesù; non come giudice, notiamolo bene, ma come Salvatore, come Colui il cui carattere è di liberarci dall'ira a venire. Dal momento della loro conversione questi credenti, benché ancora ignoranti su molti punti, avevano una speranza, quella della prossima venuta di Cristo.

    L'ira di Dio non poteva in alcun modo nuocergli, poiché la venuta del Signore li avrebbe messi al riparo.

    Caro lettore, lo scopo della tua conversione, ciò che costituisce il primo passo del cammino cristiano, è raggiunto? Hai abbandonato i tuoi vecchi «idoli», che avevi quando eri nella carne, per servire il vero Dio e aspettare dai cieli il suo Figlio? Se non lo hai fatto, se non aspetti dai cieli Gesù, quale nome bisogna dare al tuo cristianesimo?

    [...]


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    00 29/01/2012 20:21
    5. L'attesa del Signore e la vita cristiana — 1 Tessalonicesi 3:10-13
    Abbiamo già dimostrato che l'attesa del Signore non impegnava i Tessalonicesi solo al momento della loro conversione; la persecuzione che ne segui diede l'occasione per manifestare «la pazienza» della loro speranza. Lo stesso Paolo, benché fosse invecchiato, benché fosse un padre e non un bambino nella fede, aveva sempre camminato come loro nell'attività del «primo amore»; gli anni non avevano indebolito la freschezza della sua vita cristiana.

    Il cap. 2 ci presenta l'apostolo nella sua «opera di fede», nelle «fatiche del suo amore», nella «costanza della sua speranza»; poiché, quando Satana cercò di impedire il suo ministerio (v. 17, 20), egli aveva davanti agli occhi la venuta del Signore, e sapeva che a quel momento, e soltanto allora, avrebbe ricevuto la ricompensa del suo servizio.

    «Qual'è infatti la nostra speranza, o la nostra allegrezza, o la corona di cui ci gloriamo? Non siete forse voi, nel cospetto del nostro Signore Gesù quand'egli verrà?» (2:19). È così che la venuta del Signore, la quale regolava tutta la condotta di quei credenti, che pure erano ancora bambini nella fede, esercitava la stessa influenza benedetta su tutto il ministerio del grande apostolo delle nazioni. Essendo della stessa famiglia, possedevano, malgrado il grado di conoscenza così diverso, lo stesso segreto della vita cristiana. Il loro cristianesimo era molto semplice: conoscevano e amavano personalmente il Signore e vivevano nella sua attesa giorno dopo giorno!

    Il passo che è il soggetto principale di questa meditazione (3:10,13) ci mostra che la fede dei Tessalonicesi poteva incorrere in qualche pericolo. Qui «la fede» non è solo l'accettazione della testimonianza di Dio riguardo all'opera di Cristo, poiché una volta ricevuta nel cuore questa fede è completa; ma è anche l'insieme della dottrina cristiana, ricevuta per fede; da questo punto di vista a loro mancava qualcosa (v. 10). Tutto l'insegnamento di quest'epistola prova che i dettagli della loro speranza non erano ancora completi. Satana cercava di sfruttare questa lacuna. Vediamo, al cap. 4, che erano in pericolo di essere «contristati come gli altri che non hanno speranza» e, nella 2a epistola, il Nemico era riuscito in qualche modo a indebolire la loro attesa. Egli insinuava che «il giorno del Signore», cioè il giorno del giudizio, era imminente (2:2) perché attraversavano delle serie tribolazioni; e che si erano sbagliati aspettando Gesù dal cielo per liberarli dall'ira a venire.

    I credenti che non sono famigliari con il pensiero della venuta del Signore corrono il rischio di cadere nei tranelli del tentatore, e di rendere così vano tutto il lavoro dello Spirito di Dio per loro (1 Tess. 3:5). Se perdiamo la conoscenza della speranza cristiana, l'anima nostra perderà altre elementari verità cristiane che sono alla base della fede. La domanda: «Dov'è la promessa della sua venuta?» serve da fondamento al materialismo degli schernitori del tempo della fine (2 Pietro 3:4).

    Questa «attesa» di Cristo che influisce sul nostro servizio e sostiene la nostra fede, agisce anche su altri elementi della nostra vita cristiana; si può persino affermare che essa non è estranea ad alcuno di essi. È così che al capitolo 3 della nostra epistola l'apostolo non può parlare della santità senza introdurre il soggetto della venuta del Signore. «Quant'è a voi, il Signore vi accresca e vi faccia abbondare in amore gli uni verso gli altri e verso tutti, come anche noi abbondiamo verso voi, per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre, quando il Signor nostro Gesù verrà con tutti i suoi santi» (v. 13).

    Non penso che la venuta del Signore sia qui la manifestazione di Gesù Cristo con tutti i suoi santi davanti al mondo, ma davanti al Padre. Questo passo ce lo presenta nell'atto di venire, ma come manifestato «nel cospetto di Dio nostro Padre». La prima tappa del nostro viaggio celeste è il nostro incontro con Lui, «sulle nuvole, nell'aria»; ma la seconda è il suo arrivo con noi nella casa del Padre e alla sua presenza. È la che noi saremo ciò che resteremo per sempre, cioè santi e irreprensibili nell'amore, come Lui; saremo non soltanto in Cristo, ma con Cristo e simili a Lui. È con questo carattere che il Signore presenterà la Chiesa a suo Padre, come pure la presenterà a se stesso. È di là che poi usciremo con Lui per essere manifestati davanti al mondo.

    Fermiamo un momento la nostra attenzione su questi passi. In essi vediamo che Paolo desiderava per i santi di Tessalonica un esercizio sovrabbondante dell'amore fraterno, e ciò non solo nella cerchia ristretta delle loro relazioni cristiane, ma «verso tutti».

    Potessimo oggi gustare questo amore che si manifesta nei confronti di tutti i membri di Cristo! Quante volte si trattano da estranei, come se non fossero fratelli, i figli di Dio che non si radunano con noi e coi quali non si segue lo stesso cammino! E quante volte l'amore vero è sostituito da una specie di amicizia, ed è poi quella che unisce i membri delle diverse sette che dividono la povera Chiesa del Signore!

    L'apostolo era stato, agli occhi dei Tessalonicesi, un modello di questo amore di cui parla. Poteva dire in verità: «Come anche noi abbondiamo verso voi», poiché lo aveva loro provato, «come nutrice che cura teneramente i propri figliuoli». E aggiunge: «Così, nel nostro grande affetto per voi, eravamo disposti a darvi non soltanto l'Evangelo di Dio, ma anche la nostra propria vita, tanto ci eravate divenuti cari». Il lavoro dell'apostolo in mezzo a loro era stato la vera «fatica dell'amore»: «Poiché, fratelli, voi la ricordate la nostra fatica e la nostra pena; egli è lavorando notte e giorno per non essere d'aggravio ad alcuni di voi, che v'abbiam predicato l'Evangelo di Dio» (2:2,9).

    L'esercizio dell'amore fraterno ha delle conseguenze infinitamente preziose per lo stato delle anime nostre; lo possiamo ancora constatare dalle parole dell'apostolo: «Per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre». Queste due cose, con l'amore che ne è la sorgente, caratterizzano la persona di Cristo: Egli è amore, è il Santo, è irreprensibile, lui che «non ha fatto nulla di male» (Luca 23:41), che non ha mai commesso peccato (1 Pietro 2:22).

    Queste cose mostrano anche quale sia la nostra posizione attuale in Cristo. Dio, che ci vede in Lui, ci vede necessariamente come Lui: «Siccome in Lui ci ha eletti, prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi, e irreprensibili dinanzi a Lui in amore» (Efes. 1:4).

    Queste cose mostrano anche la nostra condizione futura: «Per farvi comparire davanti a sé santi e irreprensibili» (Col. 1:22). «Cristo ha amato la Chiesa... affin di far egli stesso comparire dinnanzi a sé questa Chiesa, gloriosa, senza macchia, senza ruga o cosa alcuna simile, ma santa e irreprensibile» (Efesini 5:27).

    Ma un credente non può limitarsi a sapere che è perfetto in Cristo e che sarà perfetto nella gloria. Avendo in sé la vita divina cercherà di realizzarla praticamente quaggiù. Tale fu innanzitutto il cammino dell'apostolo: «Voi siete testimoni, e Dio lo è pure, del modo santo, giusto, e irreprensibile col quale ci siamo comportati verso voi che credete; e sapete pure che, come fa un padre coi suoi figliuoli, noi abbiamo esortato, confortato e scongiurato ciascuno di voi» (1 Tess. 2:10). L'amore per i santi era stato la sorgente della sua condotta nei loro confronti.

    Tale doveva essere anche il cammino dei Filippesi; l'apostolo scrive loro: «E la mia preghiera è che il vostro amore sempre più abbondi... affinché siate sinceri (altri traduce «puri») e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil. 1:9-10).

    Questa verità riguardo al nostro cammino cristiano è molto mportante. Ricordatevi che la nostra santità pratica proviene dal nostro amore e che essa non esiste quando questo è assente. L'amore fraterno ci lega alla famiglia di Dio e ci santifica, separandoci moralmente da ciò che non è nato da Lui. Da quel momento non potremo amare né coltivare ciò che il mondo ricerca, e troveremo il nostro piacere nelle cose celesti con coloro che le conoscono e le amano. Quando l'amore fraterno si indebolisce e il credente non vi abbonda più, un certo vuoto si produce nel suo cuore; il mondo vi trova allora un posto da occupare e si affretta ad approfittarne. Vi si introduce prima silenziosamente, in segreto, per così dire, ma presto regna da padrone e la santità, la separazione pratica per Dio, finisce per essere un termine senza più alcun senso.

    Ritorniamo adesso al passo iniziale: «Per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre». In questo caso non si tratta del nostro cammino, come in Fil. 1:9-10, ma dello stato dei nostri cuori. L'esercizio dell'amore fraterno rinfranca il cuore dei fedeli che si trovano in uno stato irreprensibile e nella santità davanti a Dio, dando ad essi la felice conoscenza di queste cose. Ma come potremmo noi essere soddisfatti del modo con cui rappresentiamo Cristo quaggiù? Sarebbe essere soddisfatti di noi stessi, e giungere alla pericolosa illusione di poter essere perfetti in questo mondo. È per questo che Paolo aggiunge: «Quando il Signor nostro Gesù verrà con tutti i suoi santi». Troveremo la perfezione in queste cose soltanto alla venuta del Signore; e, sostenuti da questa speranza, la realizziamo più completamente aspettando, da un momento all'altro, la piena realtà. Gli occhi fissi su Gesù, ci sforziamo di essere già trovati in Lui tali quali saremo quando Egli verrà con tutti i suoi santi.

    Non posso e non devo avere una misura di santità inferiore a quella. Come posso non camminare nell'amore quando penso che il Signore Gesù sta per introdurci tutti insieme, con lui, alla presenza di Dio Padre? Allora lo scambio d'amore tra Cristo e noi, e tra noi e Dio, sarà completo e riempirà eternamente la casa del Padre col suo profumo! Come si può non vivere oggi nella santità se aspettiamo da un momento all'altro la sua venuta, dove il carattere di «tutti i santi» rispecchierà perfettamente il Suo?

    L'attesa del Signore è la risorsa, la forza, l'incoraggiamento alla santità del nostro cuore e del nostro cammino. Possiamo così ripetere con l'apostolo le preziose parole con cui termina questa epistola: «Or, l'Iddio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l'intero essere vostro, lo spirito, l'anima ed il corpo, sia conservato irreprensibile, per la venuta del Signor nostro Gesù Cristo. Fedele è Colui che vi chiama, ed Egli farà anche questo». Amen.

    Abbiamo fatto notare che la santità non può essere disgiunta dall'amore che ne è il punto di partenza; né dalla venuta dei Signore che ne è il punto d'arrivo. Questa venuta influenza anche tutte le altre qualità cristiane: la purezza, la sobrietà, la giustizia, la pietà (1 Giov. 3:3; Tito 2:11-13). Tale sarà la nostra condotta se aspettiamo la «beata speranza».

    Dico ancora qualche cosa sull'influenza che la venuta del Signore deve esercitare sui nostri sentimenti. Non parlo dei nostri affetti e della nostra gioia, che sono certamente legati all'attesa del Salvatore: conoscerlo significa amarlo; amarlo significa desiderarlo e rallegrarsi della sua venuta. Ma faccio allusione a ciò che ci è detto in Filippesi 4:5: «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino». In questo caso la mansuetudine è il carattere d'un uomo che non insiste sui propri diritti anche se, moralmente, nessuno è autorizzato a violare i miei diritti (per esempio a impadronirsi di ciò che mi appartiene, a cacciarmi da casa, a privarmi della mia famiglia, della mia libertà, ecc...). Il Signore stesso aveva dei diritti quaggiù; era re ed era nato per questo; poteva pretendere di avere il potere, il possesso di tutte le cose, i più alti onori, l'omaggio di tutti. Ma ha Egli rivendicato i suoi diritti? No! Si è lasciato accusare ingiustamente, giudicare in modo iniquo, e non ha mai protestato. Ha visto che gli prendevano il suo regno, la sua eredità, la sua dignità, la sua libertà, la sua vita; ma «non aperse la bocca». Egli è stato come una pecora muta dinnanzi a chi la tosa (Isaia 53).

    Facciamo così anche noi? Il minimo attacco ai nostri diritti non ci esasperi. Se ci fanno torto, questo non ci sembri così poco sopportabile da dover fare ricorso al mondo per vendicarci del nostro avversario. Ricordiamo questo precetto: «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini»! Il fatto è che a volte dimentichiamo il mezzo per realizzarla; ma ecco: «Il Signore è vicino»! Come potrei insistere sui miei diritti quando aspetto la venuta prossima, immediata, del Signore? Posso lasciarli nelle mani degli uomini che me li tolgono; io preferisco aspettare, poiché sto per condividere la gloria celeste con Lui. Quale follia sarebbe il voler insistere sui miei diritti e farli riconoscere in un mondo che sto per lasciare! Il Signore rivendicherà più tardi i miei diritti nel suo regno terrestre come se fossero i suoi; ma nell'attesa io li lascio perdere. Il nemico non me li ha rubati per molto tempo.

    L'apostolo Paolo aggiunge: «Non siate con ansietà solletici di cosa alcuna». È come se la frase «il Signore è vicino» unisse ciò che precede a ciò che segue. L'attesa del Signore che mi fa rinunciare ai miei diritti mi fa anche deporre in mano sua ogni mio bisogno e problema. Perché preoccuparmi dell'oggi, del domani, delle circostanze difficili, degli ostacoli posti da Satana, dello stato della Chiesa, della rovina della sua testimonianza? Lo Spirito risponde: «Non siate solleciti di cosa alcuna». Perché essere ansiosi? Il Signore viene per mettere fine a tutte queste difficoltà. Ma non bisogna che sia indifferenza; il credente non può essere indifferente al male. «Ma in ogni cosa siano le vostre richieste rese note a Dio in preghiera e supplicazione con azioni di grazie»! Le difficoltà, i problemi, le angosce, spingono l'anima alla dipendenza, alla preghiera, a confidare in Dio; essa rimette ogni cosa a Dio la cui pace guarda il nostro cuore.

    Altri passi mostrano la consolazione che la venuta del Signore dà alle anime che sono nel dolore (1 Tess. 4:13-18), il coraggio di cui colma i cuori tormentati e timorosi (Giov. 14:1-3), la pazienza che comunica nelle difficoltà: «Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore». «Siate anche voi pazienti; rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Giacomo 5:7, 8).
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    6. La venuta del Signore e la risurrezione dei santi — 1 Tessalonicesi 4:13-18
    I Tessalonicesi, benché fossero giovani nella fede, avevano ricevuto fin dal principio un gran numero di verità importanti.

    Questa prima epistola fa continuamente allusione a ciò che già conoscevano. «Voi sapete» è un termine tipico di tutte le lettere apostoliche per designare la conoscenza cristiana; e lo troveremo spesso in questi capitoli. Così, i Tessalonicesi sapevano molto bene che «il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte» (5:2). Quanto ai tempi e ai momenti di cui la profezia parla, non avevano bisogno di ricevere ulteriori insegnamenti, ma su un punto particolare erano «nell'ignoranza»: non sapevano ciò che sarebbe successo, alla venuta del Signore, di coloro che si erano «addormentati». Quando uno dei loro fratelli veniva loro tolto, dalla morte, erano profondamente afflitti e sembra non avessero, per i santi addormentati, la stessa speranza che avevano per loro stessi (v. 13) viventi.

    Possiamo pensare che non avessero alcun dubbio sulla beatitudine delle anime di quelli che si erano addormentati nel Signore; non sarebbero stati dei credenti se avessero messo questo in dubbio. Ma loro, che si rallegravano ad ogni istante al pensiero di essere rapiti presso il Signore senza passare per la morte, credevano che i santi che morivano subissero una perdita. Forse pensavano che coloro che sarebbero stati rapiti dal Signore alla sua venuta avrebbero preceduto, con dei corpi mutati e incorruttibili, quelli che erano morti in Cristo, i quali li avrebbero forse raggiunti più tardi, alla risurrezione dei giusti.

    Lo stato dell'anima dopo la morte non era nei loro pensieri lo stato definitivo; essi stimavano che i fratelli deceduti fossero privati di un vantaggio, e che loro avrebbero raggiunto la perfezione molto prima.

    Queste sono le conclusioni che si possono trarre dalla lettura attenta di questi passi. Del resto, i timori causati dall'ignoranza mostravano come il primo amore fosse vivo nei loro cuori, poiché erano più addolorati dalla presunta perdita dei loro fratelli deceduti, che occupati del loro proprio guadagno.

    Su tutti questi punti l'apostolo dà l'insegnamento chiaro e preciso della Parola di Dio. Comincia col mostrare che la sorte dei santi addormentati non la si può separare da quella di Cristo. «Poiché, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure, quelli che si sono addormentati, Iddio, per mezzo di Gesù, li ricondurrà con lui» (v. 14).

    Gesù Cristo è entrato nel dominio della morte, ma per vincerla; è uscito in risurrezione da quel luogo di cui ha infranto le porte. Ha fatto questo per noi, e lo ha fatto in modo così completo che ormai il nostro passato, il nostro presente e il nostro avvenire son legati al suo.

    Siamo morti con Lui e risuscitati con Lui; resta ancora, se ci addormentiamo, la risurrezione dei nostri corpi. In quale momento questo avverrà? Ecco ciò che i Tessalonicesi dovevano imparare. L'apostolo mostra loro, innanzitutto, che i santi addormentati Dio li ricondurrà con Cristo, perché non potevano essere separati da Lui alla sua venuta, come non lo erano stati nella sua morte e nella sua risurrezione.

    In seguito, per parola del Signore, Paolo svela il mistero che non era ancora stato loro rivelato; cioè che, alla venuta del Signore, i viventi non precederanno in alcun modo quelli che si sono addormentati. La risurrezione di questi ultimi avverrà in quello stesso momento e in primo luogo; in seguito ci sarà la trasmutazione dei viventi.

    La prima risurrezione si lega quindi alla venuta del Signore per prendere i suoi. È in quel momento che la vittoria di Cristo sulla morte sarà confermata e che Egli ne raccoglierà in abbondanza i frutti. Per mezzo della risurrezione di Cristo, la morte è stata vinta e annullata (2 Tim. 1:10).

    Con la risurrezione di «quelli che sono di Cristo, alla sua venuta», la morte sarà «sommersa nella vittoria. Allora sarà provato in modo palese che in virtù dell'opera del Salvatore essa non ha conservato alcun potere sui corpi dei santi. La sua preda le sfugge senza che possa trattenerla. Tuttavia la morte, quest'ultimo nemico, sarà distrutta (1 Cor. 15:26) solo al momento in cui ogni cosa sarà posta sotto i piedi di Cristo, ed Egli rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre. Allora, alla soglia dei tempi eterni, la morte e l'Ades saranno gettati nello stagno di fuoco (Apoc. 20:14) per sempre.

    L'apostolo in seguito rivela loro che il Signore stesso scenderà dal cielo dando il segnale del radunamento dei santi e della loro partenza con «voce d'arcangelo» e con la «tromba di Dio». La partenza avverrà quando tutti saranno radunati (i morti in Cristo risuscitati essendo i primi all'appuntamento); allora, tutti insieme partiremo ad incontrare il Signore sulle nuvole, e «così», dice Paolo, «saremo sempre col Signore». Che consolazione deve aver riempito il cuore dei Tessalonicesi all'udire queste cose!

    Ciò che essi avevano ancora da imparare, noi adesso lo conosciamo per mezzo della Parola di Dio. Davanti ad una rivelazione così chiara, i credenti dei giorni nostri dovrebbero aspettare giornalmente il Signore. Purtroppo non è così. L'attesa del Signore non può essere una cosa attuale se la Persona attesa non ha della realtà per l'anima. Potremmo noi tutti dire, come l'apostolo: «Noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore» (4:15-17)? Questa venuta era per lui così attuale e così vicina da non riuscire a vederla realizzarsi al di là della durata della sua vita umana.

    Il credente che realizza la sua speranza non aspetta la morte; «Perciò» dice «desideriamo non già d'essere spogliati, ma d'essere sopravvestiti» (2 Cor. 5:4). A Pietro occorreva una rivelazione speciale per fargli sapere che doveva passare per la morte (2 Pietro 1:14).

    Se si è dimenticata la venuta del Signore si perde di vista l'immensa importanza della risurrezione. Ci si abitua, non dottrinalmente, forse, ma (e questo è ancora più grave) col pensiero, a considerare lo stato dell'anima dopo la morte come lo stato di perfezione definitiva per il credente. Si dice di un defunto: «Ci ha preceduto presso il Signore», e non si ha altra speranza che quella di raggiungerlo dopo la morte.

    I Tessalonicesi non erano afflitti in modo particolare dalla perdita dei loro cari; ma credevano che quelli che si erano addormentati facessero essi stessi una perdita, poiché non sarebbero stati presenti alla venuta del Signore. Erano afflitti al pensiero che loro stessi avrebbero preceduto i santi addormentati e sarebbero stati, prima di loro, simili a Cristo. Ora imparavano da questa lettera di Paolo non che i loro fratelli li avevano preceduti, ma che li precederanno alla venuta del Signore.

    La morte non era per loro la fine della vita cristiana e il solo cammino per entrare nella beatitudine celeste. Per molti cristiani che credono che la perfezione sia lo stato dell'anima separata dal corpo, la venuta del Signore è la morte, e il grido: «Vieni, Signore Gesù» significa essere in punto di morte.

    «Ci hanno preceduti nel cielo dove li raggiungeremo»; questo pensiero, in fondo, è estraneo alla rivelazione cristiana, benché appropriato alla conoscenza d'un santo dell'Antico Testamento (2 Sam. 12:23). La Scrittura ci mostra qui che non ci incontreremo nel cielo, ma che noi, trovati ancora in vita quaggiù, saremo rapiti coi santi risuscitati, per andare «insieme» dal Signore. Che in quel beato momento ci riconosceremo gli uni gli altri non ne dubito (i discepoli riconobbero sul monte santo Mosè ed Elia benché non li avessero mai visti); ma la «consolazione» non consiste in questo, che pur tuttavia preoccupa così tanto molti credenti; essa consiste nel fatto che andremo insieme ad incontrare il Signore, e che saremo sempre con Lui.

    Perdere di vista la venuta del Signore come speranza dell'anima, significa perdere moltissimo: è perdere di vista la sua Persona; è considerare la morte come la fine del credente; è considerare lo stato dell'anima dopo la morte come quello definitivo; è dimenticare la risurrezione d'infra i morti o meglio rinviarla al giorno della risurrezione dei morti e del giudizio. Quanti tesori persi! Eppure è una verità a cui tutto si collega, e senza la quale non c'è speranza, né vera consolazione, né sicurezza; mentre, per chi aspetta il Signore, la sua venuta è il segnale della risurrezione, del radunamento dei santi, d'una totale vittoria sulla morte!
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    00 29/01/2012 20:22
    7. La venuta del Figliuol dell'uomo — Matteo 24:30-44; 1 Tessalonicesi 5:1-11
    Questi passi ci presentano un nuovo aspetto della venuta del Signore: la sua apparizione come «Figlio dell'uomo» per giudicare i viventi sulla terra.

    Apparso nel tempo della grazia per soffrire, per essere respinto dai Giudei e dalle nazioni, e poi crocifisso, il Figlio dell'uomo, al quale Dio ha dato «tutto il giudizio» (Giov. 5:22), ritornerà e la vendetta che eserciterà sui suoi nemici sarà terribile.

    Matteo 24:1-31 descrive i segni profetici che precederanno e accompagneranno la venuta del Messia in rapporto col popolo Giudeo che lo ha rigettato.

    Avendo già mostrato l'applicazione pratica della profezia sulle nostre anime, eviterò di riprendere di nuovo questo soggetto; basti menzionare che i «segni» di Matt. 24 non hanno alcun rapporto coll'apparizione della «stella mattutina», cioè con la venuta in grazia del Signore per rapire i suoi, ma precedono l'apparizione del sole di giustizia di cui stiamo ora parlando.

    Vi sarà, ai tempi della fine, sulla terra, un corpo di testimoni Giudei, il vero Israele, il «rimanente» (o residuo) della profezia, il quale sarà avvertito, per mezzo di segni, del giudizio imminente sui suoi persecutori, e della sua prossima liberazione.

    In quello stesso periodo, un'innumerevole moltitudine fra le nazioni (non quelle della cristianità apostata) si convertirà per mezzo della predicazione «dell'Evangelo del regno». Questi credenti accetteranno, quale Signore, Colui che sta per apparire come Figlio dell'uomo, giudice e re, e si sottometteranno a Lui; e saranno benedetti per aver ascoltato e soccorso il residuo di Israele al tempo della sua grande tribolazione (Matt. 25:31-46).

    I versetti 32 a 44 del capitolo 24 si riferiscono ai discepoli giudei della fine. Il Signore dice loro: «Quando vedrete tutte queste cose sappiate che egli è vicino, proprio alle porte» (v. 33), e: «Questa generazione (giudea) non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute» (v. 34).

    Quando il Figliuol dell'uomo verrà non troverà il mondo cambiato né nel suo carattere né nelle sue occupazioni. Gli uomini saranno i medesimi dei tempi di Noè, dei giorni innanzi al diluvio, nei quali «si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e s'andava a marito,... e di nulla si avvide la gente, finché venne il diluvio che portò via tutti quanti» (v. 38-39). Uno solo, Noè, uomo di fede, entrò nell'arca con la sua famiglia e fu «lasciato» come ceppo d'una nuova razza in un mondo purificato dal giudizio.

    Così avverrà anche alla fine dei tempi. Il giudizio farà una netta distinzione fra i giusti e i malvagi. Questi ultimi saranno «presi» come un tempo gli uomini iniqui, portati via dal giudizio, mentre, come il giusto Noè, gli altri saranno «lasciati» sulla terra purificata.

    Ma ciò che stava a cuore al Signore era di far conoscere ai discepoli che gli stavano intorno quale doveva essere il loro comportamento nell'attesa del ritorno del «Figliuol dell'uomo». Sarà un ritorno improvviso. Nessuno può conoscere il giorno né l'ora; neppure gli angeli. Questa conoscenza è riservata solo al Padre (v. 36). L'avvicinarsi di quel giorno sarà preannunciato da «segni» (v. 33), ma tutti ne ignorano la data. Ciò che i discepoli dovevano sapere era che il giorno del Figlio dell'uomo verrà all'improvviso come un ladro (v. 43). Dovete vegliare, dice il Signore, poiché il ladro viene di notte: così «non sapete in quale giorno il vostro Signore sia per venire». Il Figlio dell'uomo, la cui venuta sorprenderà gli uomini come fa un ladro, non aveva però questo carattere per i discepoli; Gesù era il loro Signore, ed è Lui che devono aspettare con una vigilanza continua.

    Ma queste cose, che riguardano i Giudei, interessano solo loro? 1 Tess. 5 ci mostra che esse hanno un interesse anche per i cristiani. «Or, quanto ai tempi e ai momenti, non avete bisogno che vi se ne scriva» (v. 1): i Tessalonicesi conoscevano, dalla profezia, i segni della venuta del Figlio dell'uomo, che non è la beata venuta del Figlio di Dio, di cui il cap. 4 aveva loro parlato. Paolo dice: «Perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte» (v. 2). Gli uomini saranno raggiunti da un'improvvisa distruzione; «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, si che quel giorno abbia a cogliervi a guisa di ladro; poiché voi tutti siete figliuoli di luce e figliuoli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre» (v. 4).

    Il motivo per il quale il giudizio non può colpirci è che apparteniamo già a quel giorno che è ancora futuro, essendo stati liberati dal potere delle tenebre e generati per essere dei figli della luce. In che cosa, allora, il giorno del Signore tocca le nostre coscienze? Lo Spirito Santo aggiunge: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri. Poiché quelli che dormono, dormono di notte; e quelli che s'inebriano, s'inebriano di notte; ma noi che siamo del giorno, siamo sobri» (v. 6). Dormire e inebriarsi sarebbe rinnegare il nostro carattere di figli del giorno. Abbiamo anche questo motivo, ed è molto potente, per vegliare, e rifiutare tutte le cose inebrianti con le quali il mondo e Satana cercano di addormentare le nostre anime. Apparteniamo a un'altra sfera, quella della luce eterna!

    Le nostre veglie, allora, saranno vissute nel timore che l'ira divina ci raggiunga? Per niente, poiché noi non dobbiamo difenderci dal giudizio, ma dal mondo che sarà giudicato, «avendo rivestito la corazza della fede e dell'amore, e preso per elmo la speranza della salvezza».

    «Poiché Iddio non ci ha destinati ad ira; ma ad ottener salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo» (5:9). La fede e l'amore ci rendono invulnerabili ai colpi di Satana e del mondo, e ci legano a Dio, a Cristo e a tutti quelli che sono nati da Lui. Quando godo di queste cose eccellenti, quelle di quaggiù perdono il potere di nuocermi.

    La speranza della salvezza ci riempie di sicurezza di fronte a questa ira futura che non ci è destinata.

    È così che il credente fedele aspetta il giorno del Signore. Quel giorno non lo riguarda personalmente; ma tocca la sua coscienza, ed è una cosa molto salutare in mezzo ai pericoli di ogni genere che minacciano la nostra vita cristiana.

    Ma la cristianità professante deve ritenersi al riparo da quel giorno? Essa s'illude di sì, poiché porta il nome di Cristo. Non si illuda! Sardi (Apoc. 3:1-6), che rappresenta la cristianità sotto la forma più illuminata, cioè il Protestantesimo, riceve questo avvertimento dal Signore: «Ricordati dunque di quanto hai ricevuto e udito; e serbalo e ravvediti. Che se tu non vegli, io verrò come un ladro, e tu non saprai a quale ora verrò su di te» (Apoc. 3:3). La religione, la più ortodossa, non salva quelli che la professano dal terribile giorno del Figlio dell'uomo. I religiosi, semplici professanti senza vera fede, saranno considerati alla stessa stregua di quelli del mondo, degli increduli aperti.

    Senza il pentimento che accompagna la fede, la loro sorte sarà uguale a quella degli empi.
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    00 29/01/2012 20:23
    8. La venuta del Padrone di casa — Matteo 24:45-51
    Dopo la venuta del Figlio dell'uomo ecco la venuta del Padrone di casa. Questo passo non ci parla del mondo propriamente detto, né d'Israele, ma della casa di Dio, come fu stabilita e organizzata dopo la partenza del Signore. Composta da tutti coloro che gli appartengono per la fede, essa avrebbe dovuto essere il modello della «dispensazione di Dio» (1 Tim. 1:4) in questo mondo. Questa casa doveva contenere la professione cristiana nella sua realtà, e non la professione senza vita, frutto dell'infedeltà della Chiesa. Tuttavia, tale quale essa è oggi, la cristianità riconosce ancora il Signore come suo Padrone; Egli quindi la tratterà secondo ciò che essa professa di essere.

    La casa di Dio ospita dei servi responsabili, stabiliti dal padrone per compire il loro ministerio. Come hanno risposto alla fiducia che il Padrone riponeva in loro? La Parola di Dio ce lo dichiara: «Vi fu un malvagio servitore (*) che diceva in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire».

    _____________________
    (*) È utile ricordare che in questa parabola il servitore corrisponde non a una singola persona ma ad una collettività di cristiani.
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    Il servo infedele comincia ad abbandonare l'attesa del Padrone. La sua intelligenza forse accetta ancora la verità della sua prossima venuta, ma il suo cuore la rinnega. Questo è molto serio! Il primo passo del declino è l'abbandono dell'idea della venuta immediata del Signore. Il servo non dice: Il mio padrone non verrà, ma semplicemente: Tarda a venire; questo dimostra che la venuta del Signore non è più una realtà per il suo cuore.

    La conseguenza della sua infedeltà è che «comincia a battere i suoi conservi» assumendo nella casa del suo Signore delle funzioni che Egli non gli aveva affidato.

    Egli domina sui suoi compagni di servizio e li tratta con durezza, secondo la sua fantasia, come se fosse lui più importante di loro. Non è forse questa l'immagine di coloro che si arrogano un'autorità nella casa di Dio dove solo il Signore ha il diritto di dominare?

    Poi si mette a mangiare e a bere con gli ubriaconi, cioè si allea con un mondo inebriato di quelle concupiscenze che Satana presenta (1 Tess. 5:7). Non è detto, come in Luca 12:45, che quest'uomo si ubriaca, benché un tale rilassamento porti a questo, presto o tardi; ma egli si associa a ciò che Dio odia, e perde il suo carattere di servo, anche se esteriormente lo mantiene.

    Ma vi è anche nella casa del padrone, un servo fedele e prudente. Egli sa che il suo Signore lo ha stabilito sui domestici della sua casa, non perché s'innalzi, ma per servire gli altri e dar loro «il vitto a suo tempo». Questo servo, assolvendo al suo compito, desidera che il padrone, arrivando, lo trovi «così occupato».

    Beata speranza! Poiché ciò che importa al Signore è il modo con cui i suoi servi si comportano nella sua casa in rapporto con la sua venuta. Sì, beato il servitore fedele: la sua costanza al servizio degli altri, servendo il suo Padrone e aspettandolo, gli fa ottenere una ricompensa alla quale senza dubbio non pensava: il Padrone «lo costituirà su tutti i suoi beni»!

    Il malvagio servitore vedrà apparire il suo Signore «nel giorno che non se l'aspetta, e nell'ora che non sa». La sua mancata vigilanza e la sua dimenticanza della venuta del Padrone saranno la causa del suo giudizio. Sarà flagellato, lui che aveva stimato che si poteva separare la «professione» dalla «vita». Egli avrà «la sorte degl'ipocriti», poiché un ipocrita è uno che si riveste d'un carattere religioso di cui non ha la realtà.

    «Ivi sarà il pianto», segno d'un dolore senza fine, «e lo stridor dei denti», un'eterna e impotente rabbia d'aver perso l'occasione, rabbia che non sarà addolcita da alcun sentimento di tenerezza, poiché, avendo disprezzato l'amore, i dannati non lo comprenderanno mai.
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    00 29/01/2012 20:23
    9. La venuta dello Sposo — Matteo 25:1-13
    Questi versetti ci presentano il Signore sotto l'aspetto d'uno sposo che viene. Le dieci vergini escono ad incontrarlo; esse formano un insieme in apparenza omogeneo, ma che invece è costituito da due parti con dei caratteri morali completamente opposti. «Cinque d'esse erano stolte e cinque avvedute».

    Queste vergini escono. È la nostra responsabilità, poiché è nostro dovere andare incontro allo Sposo. Per uscire bisogna lasciare, come Abrahamo, il luogo in cui si abita, il paese e la parentela, lasciare in senso morale; bisogna dimenticare, come la sposa del Salmo 45, il proprio popolo e la propria casa. Ma, spesso, ciò che dobbiamo lasciare ha del valore per noi, ha il potere di ritenerci quando invece dovremmo con zelo andare incontro allo Sposo.

    Le vergini dovranno formare il suo corteo quando entrerà nella sala delle nozze. Si muniscono quindi di lampade, a meglio di torce (conf. Giov. 18:3), le quali devono essere alimentate con olio, e portano con sé, in vasi, questa indispensabile provvista.

    A cosa servirebbe, di notte, un corteo senza torce? Farebbe onore a Colui che si scorta? La persona dello Sposo deve essere messa in luce, agli occhi della folla, da coloro che lo accompagnano.

    Le vergini stolte, prendendo le loro lampade, avevano dimenticato la scorta d'olio. Nessuno se ne sarebbe accorto sino alla formazione del corteo. Quando furono accese, le loro lampade potevano dare ancora una certa luce, poiché sentiamo le vergini stolte dire alle avvedute: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono»; ma questa luce non sarebbe durata che il tempo per consumare lo stoppino.

    Questo racconto ci presenta una grande verità: se la professione cristiana è di tutti, poiché le vergini stolte hanno le medesime lampade delle avvedute, essa non è però sufficiente, da sola, per mettere in luce la persona dello Sposo. La sua venuta dimostrerà che la semplice professione è simile alle tenebre più fitte. Ciò che dà valore alla professione è la vita che l'accompagna. L'olio, generalmente, è nella Parola il simbolo dello Spirito Santo; lo Spirito e la vita sono inseparabili. La professione e la vita formano insieme la vera testimonianza cristiana.

    Ognuno di noi deve rendere testimonianza allo Sposo verso il quale siamo usciti. Le vergini che non lo fanno sono «stolte»; che follia immaginare di poter scortare lo Sposo, il giorno delle nozze, con delle semplici apparenze e senza la realtà della testimonianza! L'unica cosa che dà alla scorta il diritto di entrare nella sala delle nozze è la lampada accesa, quindi con l'olio.

    Questa parabola rivela ancora un fatto penoso: «Or tardando lo sposo, tutte divennero sonnacchiose e si addormentarono». Il loro sonno durò per molto tempo, durò secoli. Senza dubbio le vergini, inizialmente «uscite», rientrarono in qualche luogo simile a quello che avevano lasciato in principio, poiché «sulla mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, uscitegli incontro!» In principio i cristiani avevano rotto ogni legame che tendeva a trattenerli, per andare speditamente incontro a Gesù; ma il mondo con le sue tentazioni, l'amore del benessere, le mille attrazioni del «luogo oscuro», smorzarono ben presto questo primo zelo.

    Ad un certo momento, nel secolo scorso, la verità del ritorno del Signore fu rimessa in luce e insegnata; questo grido «Ecco lo sposo» si è fatto udire in mezzo al cristianesimo professante. Ciononostante, lo Sposo non è ancora venuto. Un certo lasso di tempo si interpone tra questo grido e la Sua venuta. Questo intervallo, non dimentichiamolo, basta per mettere alla prova la condizione morale di ciascuno. Le lampade delle vergini stolte hanno il tempo di spegnersi e di dimostrare, purtroppo, che sono inadatte al corteo; le vergini savie hanno il tempo di «prepararsi» e di essere al loro posto quando lo sposo verrà. Ricordiamoci che, se le nostre lampade non brillano prima che Egli venga, non potremo entrare nella sala delle nozze con Lui.

    Ora, molte domande si affacciano alla mia mente.

    Abbiamo tutti udito il «grido di mezzanotte»? Ci ha lasciato indifferenti? Abbiamo messo a profitto il tempo che ci separa dalla venuta del Signore? Saremo tentati di assopirci e di addormentarci una seconda volta?

    Ricordiamoci che non ci sarà un nuovo grido. Il tempo è breve, il momento giunge. Lo Sposo ci troverà vigilanti? Saremo sorpresi dalla sua venuta? Che domande serie! Possiamo noi rispondervi con dei fatti, o meglio con il solo fatto di essere trovati da Lui come suoi veri testimoni!

    «Quelle che eran pronte, entrarono con lui nella sala delle nozze». E le altre senza olio? «Andate piuttosto dai venditori e compratene»! È troppo tardi; hanno perso l'occasione, offerta a tutte, di procurarsene senza pagare alcun prezzo. «Ma mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo». Adesso si sbrigano, sì, ma quando arrivano la porta è chiusa. Bussano: «Signore, Signore, aprici!» È troppo tardi! Sono lasciate nelle tenebre di fuori con le loro inutili lampade, separate per sempre da Colui che ha detto loro: «Non vi conosco»!

    Vegliamo dunque poiché non sappiamo né il giorno né l'ora.


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    00 29/01/2012 20:24
    10. La venuta del nostro Padrone e le ricompense — Matteo 25:14-30
    Tutte le parabole che abbiamo meditato sino ad ora si occupano del comportamento dei fedeli e dei semplici professanti nell'assenza del Signore. Questa che stiamo per considerare insiste in modo ancora più particolare sulla sua assenza: «Poiché averrà di un uomo il quale, partendo per un viaggio... E partì».

    Il padrone se ne è andato; cosa dobbiamo fare fino al suo ritorno? Questa è la domanda che qui si pone. Non si tratta, come nella parabola del padrone di casa, di un servizio all'interno, di dare ai domestici il vitto «a suo tempo»; ma di commerciare al di fuori coi talenti che ciascuno ha ricevuto. È il servizio individuale in questo mondo.

    Un servitore e un testimone sono due cose diverse. Le dieci vergini dovevano essere testimoni dello Sposo alla sua venuta, ma il servizio consiste nell'amministrare ciò che ci ha confidato, facendolo fruttare per Lui durante la sua assenza. Il Padrone dà i suoi beni a tutti. I talenti sono tutto ciò che gli appartiene, tutto ciò che ci affida, tutto ciò che possiamo impiegare al suo servizio: doni, capacità, patrimoni, cose materiali o spirituali, poco importa il loro carattere o la qualità. Egli dà i talenti a «ciascuno secondo la sua capacità». Lui solo è il giudice, e noi dobbiamo valutarli secondo questo pensiero; è affar suo e non nostro. Il nostro dovere è d'impiegare fedelmente ciò che ci affida.

    Notiamo che, nella parabola, il padrone non dà ai suoi servi nessun comandamento, nessuna direttiva speciale sul modo con cui devono agire. Quando affida loro i talenti, non dice ciò che devono farne; dopo averli dati, se ne va. È la stessa cosa oggi; il Signore è assente, essendo in cielo, e ci lascia quaggiù con la responsabilità di servirlo.

    Ma lo stato dei cuori si manifesta molto presto. I servi fedeli conoscono il loro padrone e gli sono sottomessi. Se egli non li avesse amati, avrebbe potuto mostrare una tale fiducia affidando loro i suoi beni? Come si può, dopo un fatto simile, dubitare, anche solo per un momento, del suo amore? Allora essi fanno tutto il possibile per rispondere alle sue aspettative. Non viene loro in mente che i talenti siano di loro proprietà, poiché sanno di avere tra le mani i beni del padrone. E perché avrebbe dovuto lasciarli ai suoi servi se non perché li facciano fruttare? Così, essi desiderano che, quando verrà, sia soddisfatto del loro lavoro.

    Questo atteggiamento lodevole dei servi fedeli deriva da quattro fatti: il Signore è il loro padrone e li ama; essi hanno fiducia in lui e lo aspettano. La sua assenza si prolungherà forse per «molto tempo» (v. 19) ma loro lo aspettano servendolo.

    Possiamo noi avere tali motivi per servirlo! Quando verrà per regolare i conti con noi, avremo la ricompensa. Tuttavia, i servitori fedeli non lavorano in vista di questa ricompensa; non desiderano che una cosa: che il Padrone riceva l'interesse dei suoi talenti e ne sia soddisfatto.

    Invece il servo malvagio dice: «Signore, io sapevo che tu sei uomo duro...» (v. 24); lui che aveva la pretesa di conoscere il padrone è il solo a cui questi è completamente estraneo! Egli lo giudica «un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso», un Padrone esigente quindi. Certo, egli ha il diritto di esigere, ma è forse questo il suo carattere?

    Come erano più istruiti gli altri servitori! Non conoscendolo, costui non poteva avere nessuna fiducia in lui, né alcuna intelligenza del suo scopo e dei suoi pensieri. È completamente estraneo alla grazia.

    Essendo la sua vita rimasta sterile per colui che ha così oltraggiosamente misconosciuto, il malvagio servitore è gettato nelle tenebre di fuori dove c'è il pianto e lo stridor dei denti.

    Vediamo ora qual è la ricompensa dei servi fedeli. Innanzi tutto, essendo stati fedeli in ciò che hanno ricevuto, essi ricevono del sovrappiù. «Toglietegli dunque il talento, e datelo a colui che ha i dieci talenti. Poiché a chiunque ha sarà dato, ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». Il risultato immediato della nostra fedeltà è che le nostre ricchezze spirituali si accrescono con l'uso. Voglia Iddio che ognuno di noi possa farne l'esperienza!

    In seguito, il Padrone indirizza queste parole ai suoi servi; «Va bene, buono e fedel servitore; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore».

    Egli ci dà la preziosa certezza della sua approvazione per la quale abbiamo lavorato; ma non vuole restare nostro debitore. È «poca cosa» il nostro servizio, lo sa bene, e noi pure, ma ci offre in cambio una parte nel suo regno glorioso. A noi poveri servi vuole concedere delle grandi benedizioni facendoci partecipi della sua gioia. Ciò che fa le sue delizie diventerà nostro per l'eternità.
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    00 29/01/2012 20:24
    11. Il piccolo gregge e il Signore di ritorno dalle nozze — Luca 12:32-44
    Il Signore stava per lasciare i suoi; il mondo lo aveva respinto definitivamente. Il complotto che doveva terminare con la croce era già stato ordito (Luca 11:53-54).

    Senza dubbio le apparenze contraddicevano ciò che Satana tramava nelle tenebre: mai la «popolarità» del Signore aveva brillato così tanto: «Essendosi la moltitudine radunata a migliaia, così da calpestarsi gli uni gli altri...» (12:1),

    Ma lui vede e conosce ciò che si ricopre di ipocrisia nel cuore umano; ed è in quel momento che, pur in presenza della moltitudine, incomincia a parlare ai suoi discepoli. Egli si isola con questo povero residuo angosciato, sul quale la sua prossima morte proietta già una lugubre ombra, e, aprendo tutto il cuore ai suoi diletti, li esorta, li incoraggia, dà loro consolazioni su consolazioni. Non basterebbe un volume per descrivere questo meraviglioso capitolo; c'è una parola che domina: «Non temete». La potenza e l'odio dell'uomo che vanno fino ad uccidere il corpo, la vostra piccolezza, non devono inquietarvi; Dio ha cura di voi e vi ama. Correrete dei rischi confessando di conoscermi, di essere miei, ma io vi confesserò davanti agli angeli di Dio. Vi trascineranno davanti ai giudici; non temete, poiché la potenza dello Spirito Santo vi insegnerà in quei momenti. Gli uomini saranno contro di voi, ma Dio stesso, il Figlio, e lo Spirito Santo saranno dalla vostra parte. Non siate in sollecitudine per la vita vostra; non siate in pensiero di ciò che mangerete o di ciò che berrete o come vi vestirete; avete un Padre che sa che avete bisogno di tutte queste cose.

    Egli esorta anche dicendo: «Guardatevi dal lievito dei Farisei, che è ipocrisia»; «Badate e guardatevi da ogni avarizia». Certo, anche noi abbiamo bisogno di queste tenere esortazioni, ma il Signore vuole innanzitutto riempire di fiducia questi cuori turbati e timorosi: «Non temete; non temete»!

    Dice anche: «Cercate piuttosto il suo regno» (v. 31). Il regno di chi? Del Padre. Questo regno del Padre non è quello del Figliuol dell'uomo. Esso non ha, come quest'ultimo una sfera terrestre in cui risplenderà la sua gloria. Il regno del Padre è il regno celeste in cui il Padre ha la sua dimora.

    Questo nome di Padre parla profondamente al cuore di esseri timorosi, deboli, senza difesa e senza conoscenza,e racchiude in sé il pensiero della sua protezione, delle sue cure giornaliere, del suo amore, di tutto il suo amore per quelli che ha generato e che chiama suoi figli. È verso il luogo in cui queste cose si trovano che il Signore vuole orientare i pensieri e gli affetti dei suoi discepoli.

    Oh! come saremmo portati al di sopra dei timori e di tutte le preoccupazioni sterili di questa vita, se cercassimo di più il regno del Padre! Tutte le cose terrene di cui abbiamo bisogno «ci saranno sopraggiunte», poiché avremo il Padre; ci saranno date come supplemento, per completare il peso delle cose eterne che troviamo nel suo regno.

    Il Signore riassume così, ancora una volta (v. 32), tutte le esortazioni con una parola: «Non temere, o piccolo gregge». Dopo aver preso in considerazione tutti i nostri motivi di timore, dice: «Non temere»! Voi siete un piccolo gregge in mezzo a questa moltitudine ostile. Il suo amore vuole che i figli di Dio non siano altro che questo; così non possiamo confidare nel fatto di essere numerosi, nella nostra forza e nella nostra intelligenza, ma dobbiamo confidare solo in Lui. E vedete quali grandi cose il Padre ha fatto per il piccolo gregge! «Al Padre vostro» (che ci ha messi in relazione con sé come suoi diletti) è piaciuto (totalmente al di fuori di noi, che siamo senza meriti per averlo) di darci (non di imprestarci per un tempo, accordandoci una gioia passeggera) il regno (il regno del Padre, il cielo)». Questa libera e pura grazia di Dio, questo interesse e amore del Padre, sono fatti per riempire il cuore del piccolo gregge di fiducia e di gioia.

    Il regno è nostro; lo possediamo e possiamo entrarvi oggi, domani, ogni giorno. Ma per gioirne ho qualche cosa da fare. Per entrare in casa mia ci vuole la chiave; il Signore mette ora questa chiave nelle mani dei discepoli e rivela loro il segreto per mezzo del quale possono prendere possesso di ciò che avranno per sempre: «Vendete i vostri beni, e fatene elemosina; fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro che non venga meno nei cieli, ove ladro non s'accosta, e tignola non guasta. Poiché dov'è il vostro tesoro, quivi sarà anche il vostro cuore».

    Il segreto è di non aver niente quaggiù di mio personale, di rompere tutti i legami che mi uniscono alle cose terrene considerandole come degli impedimenti, e di adoperare le cose di cui lascia l'amministrazione nelle mie mani per fare del bene ai poveri e ai bisognosi, diventando, così, come le mani del Padre il quale sa che essi hanno bisogno di queste cose.

    Ci faremo in tal modo un tesoro nei cieli; dimostreremo coi nostri atti che solo i beni incorruttibili hanno valore; e quando avremo, per così dire, costituito il nosto tesoro, i nostri cuori lo seguiranno.

    Queste tre cose sono collegate: la rinuncia, l'acquisto del tesoro, e il cuore che segue il tesoro.

    Se mi faccio delle «borse che invecchiano» il mio cuore vi si attaccherà certamente. Un bel giorno esse periranno o mi saranno rubate; e allora, povero cuore miserabile, cosa diventerai senza più il tuo tesoro?

    Una volta che il nostro cuore si è attaccato al suo tesoro nel cielo abbiamo ancora una cosa da fare: «I vostri fianchi siano cinti e le vostre lampade accese; e voi siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando tornerà dalle nozze, per aprirgli appena giungerà e picchierà». Dobbiamo cioè prendere quaggiù una precisa attitudine aspettando colui che ci ha lasciati, ma che è sul punto di tornare. Si possono avere i fianchi cinti per il servizio, per il cammino, per il combattimento e per il culto. In questo passo devono essere cinti per l'attesa. Dobbiamo vegliare sui nostri pensieri, sui nostri affetti, su tutto ciò che potrebbe distrarci e impedirci di udire i passi dello Sposo che si avvicina. Questo è il dovere del servitore, d'un servitore che sta presso alla porta, attento al più piccolo rumore per aprire appena la mano del padrone busserà.

    Le lampade accese non sono in questo caso la testimonianza, ma la vigilanza che combatte il sonno. Che i nostri fianchi siano cinti e le nostre lampade accese, di modo che ci trovi veglianti; è con queste due cose che aspettiamo il Signore.

    C'è un'espressione che colpisce molto: «Quando tornerà dalle nozze». Senza dubbio la rivelazione della relazione dello Sposo con la sua Chiesa fu data solo dopo l'ascesa al cielo del Signore e la discesa dello Spirito Santo; questo può in qualche modo spiegare perché il Signore non precisa la cosa e non dà spiegazioni su queste nozze. Ma possiamo vedervi altro. L'avvenimento principale della casa sono le nozze del padrone e il momento in cui ritorna portando con sé la sposa. Questo introduce e stabilisce un nuovo stato di cose, che fa contrasto con ciò che ha preceduto. Il governo e l'ordine nella casa sono ora completi e definitivi; è il momento della gioia del padrone; il suo cuore è soddisfatto, avendo ottenuto ciò che desiderava e si può riposare finalmente su colei che ora possiede come oggetto del suo amore. Egli conduce la sua sposa nel luogo in cui essa ormai sarà per sempre, luogo esplicitamente preparato. Questo giorno è anche quello della gioia dei servitori che vedono il loro padrone far partecipi tutti quelli che gli appartengono della sua felicità e della sua soddisfazione.

    Ecco ciò che occupa il cuore d'un servo fedele. Come pensare ad altre cose? Farà egli aspettare alla porta questo signore caro e rispettato? Egli ci tiene a dimostrare che tutto è pronto per riceverlo in questo giorno di solenne festa. Così desidera il suo arrivo, e lo attende da un momento all'altro. Il tempo passa e non gli sembra lungo; il suo affetto mette delle ali al tempo.

    «Beati quei servitori che il padrone, arrivando, troverà vigilando! In verità io vi dico che Egli si cingerà, li farà mettere a tavola e passerà a servirli».

    Così Egli dà loro più ancora del regno, più che i suoi beni, più che la sua propria gioia; ciò che fa per loro sorpasserebbe la misura se vi fosse una misura per l'amore. Lo vedremo rivestire, Lui il Padrone, i caratteri del servo, quale è sempre stato, e quale vuole sempre restare per noi; lo vedremo abbassarsi. Perché? Per servire egli stesso i suoi servi. E come li servirà? Non so; ma non sarà più la redenzione, né il lavaggio dei piedi (Marco 10:45; Giov. 13:4); ci avrà davanti a sé perfetti anche noi nell'amore; e capiremo questo amore senza limiti, e lo lasceremo fare. Non diremo come Pietro: Tu non lo farai, non ti abbasserai mai a tali funzioni. No. Non ci meraviglieremo di sentirlo dire: «Il mio servizio è la risposta al tuo». Al mio servizio!... Una tale parola oggi non può che umiliarmi profondamente, ma nella gloria capirò, adorando, che il suo servizio glorifica eternamente il suo amore, e lo lascerò fare con gioia, dandogli in cambio tutti i sentimenti d'un cuore finalmente capace di sondare l'amore perfetto del mio Signore e del mio Salvatore.
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    00 29/01/2012 20:25
    12. Il giorno di Dio — 2 Pietro 3:11-14
    Queste ultime parole di Pietro servono di riepilogo alle precedenti meditazioni. Esse ci parlano dell'instaurazione dei tempi eterni. Ne abbiamo bisogno in mezzo a questo mondo in rivolta contro Dio e che corre verso la distruzione. L'apostolo Pietro usa la «lampada» profetica per illuminarci sullo stato morale degli uomini della fine; e ci ricorda «le parole dette già dai santi profeti» (v. 2) i quali hanno annunziato che gli empi avrebbero schernito la «promessa della sua venuta». Essi dicono che «dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano nel medesimo stato come dal principio della creazione». Professano l'immutabilità della materia, e ignorano volontariamente che sia l'esistenza sia la distruzione del mondo dipendono da una parola di Dio. Come il mondo fu creato (Ebrei 11:3) e sussiste per mezzo della parola di Dio, così anche sarà distrutto «per mezzo di questa stessa parola» (2 Pietro 3:5-7). Il diluvio lo ha già sommerso una volta, ma questi uomini non vogliono crederlo, e soprattutto non vogliono credere che «i cieli d'adesso e la terra» sono «riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della distruzione degli uomini empi».

    «Ma il giorno del Signore verrà come un ladro; in esso i cieli passeranno stridendo, e gli elementi infiammati si dissolveranno, e la terra e le opere che sono in essa saranno arse» (v. 10). Questa verità è potente per stimolare la nostra condotta cristiana: «Poiché dunque tutte queste cose hanno da dissolversi, quali non dovete voi essere, per santità di condotta e per pietà...» Attaccati a questa parola non potremo vivere né col mondo né come lui, e non potremo conservare dei legami affettivi con cose che sappiamo che dovrano essere completamente arse.

    Ma il timore di trovarci legati a questo stato di cose non è il nostro solo e unico motivo di vita. Il giorno del Signore sarà seguito da un altro giorno, il giorno di Dio, «a cagion del quale i cieli infuocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si struggeranno». Sarà il giorno della piena e definitiva stabilità di tutte le cose! Noi attendiamo questo giorno meraviglioso; il giorno del giudizio non può essere l'oggetto della nostra speranza.

    Così, il giorno del Signore introdurrà il regno di giustizia sulla terra purificata dal giudizio; e dopo questo regno, quando Dio avrà distrutto «il primo cielo e la prima terra» ci sarà «il giorno di Dio», che risplenderà in nuovi cieli e su una nuova terra nella quale abita la giustizia.

    Questo è il giorno che noi aspettiamo e del quale siamo anche esortati ad affrettare la venuta; in che modo? Manifestando sin da adesso, in tutta la nostra condotta, i caratteri stabili di giustizia e di santità che appartengono a quel giorno. «Perciò, diletti, aspettando queste cose, studiatevi d'essere trovati, agli occhi suoi, immacolati e irreprensibili nella pace; e ritenete che la pazienza del Signor nostro è per la vostra salvezza».

    Conclusione
    Fratelli, il Signore viene. Stiamo per vederlo come la Stella mattutina, come Salvatore, come Padrone, come Sposo; ritorneremo con Lui in gloria per regnare con Lui, il Re. Poi, il giorno di Dio apparirà. Nell'attesa, il male regna nel mondo e noi ne soffriamo, come pure soffriamo per le nostre umilianti esperienze.

    Non temiamo, però, e non perdiamoci di coraggio. Ricordiamoci che la pazienza del Signore «è salvezza». Che questo pensiero ci sostenga! Noi abbiamo, in mezzo alla rovina di tutte le cose, i più potenti motivi per «rinunciare all'empietà e alle mondane concupiscenze» e per «vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente, aspettando la beata speranza e l'apparizione della gloria del nostro grande Iddio e Salvatore, Gesù Cristo» (Tito 2:12-13). A Lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen.



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